La classe è il luogo in cui tutti i bambini fanno le prime esperienze di successi e insuccessi e dove imparano a gestirne le relative conseguenze. La scuola primaria, però, è un ambiente protetto che limita quanto più possible la percezione di “insuccesso” rispetto alla scuola secondaria la quale diventa il vero banco di prova della strutturazione di un senso di sé competente.
I voti e le verifiche assumono importanza crescente, gli insegnanti hanno un comportamento rigoroso e formale, mentre il processo d’istruzione viene condotto in modo sempre meno personalizzato.
Qual è la relazione fra il rendimento scolastico e la percezione delle proprie abilità?
I processi educativi conducono a una stabilizzazione delle credenze di sé in merito ad intelligenza, capacità d’impegno e pianificazione dello sforzo per ottenere i propri obiettivi. Percepirsi non abile può attivare un processo insidioso di svalorizzazione del sé, che legato a frequenti insuccessi scolastici, può innescare un pericoloso senso d’impotenza appresa, disfunzionale per i processi di apprendimento e scelte di vita future.
Sulla base di questa problematica Carol Dwek ha dimostrato come, di fronte un insuccesso, due studenti, a pari livello di abilità, possono condizionare attivamente i loro successivi rendimenti sulla base della rappresentazione che hanno dell’intelligenza stessa e sul consequenziale sistema di convinzioni. Persone con pari intelligenza, misurata da test standardizzati, hanno reazioni simili nel successo ma diverse nel fallimento. Ricorrono, ovvero, implicitamente a differenti concezioni della natura delle proprie abilità, attivando due diversi profili, denominati “incrementale” ed “entitario”. La teoria alla base del profilo incrementale vede l’intelligenza come una qualità controllabile, incrementale, orientata a perseguire obiettivi di apprendimento di padronanza. All’interno di questo quadro, il fallimento è solo una richiesta di aumento dello sforzo per l’incremento delle proprie abilità e non va ad intaccare la rappresentazione positiva del sé.
Al contrario, il profilo entitario presuppone l’intelligenza come una dote acquisita, tratto fisso incontrollabile, orientata a gestire obiettivi di prestazione altamente esigenti. Di conseguenza, il fallimento viene visto come predittore di altri fallimenti futuri e di svalutazione da parte del giudizio sociale. Il soggetto non sentendosi adeguato attiva strategie d’impegno superficiali quali copiare, indovinare o imparare a memoria, oppure, evita a priori le sfide scegliendo compiti facili, autosabotando le opportunità di apprendimento e acquisto di un senso d’efficacia maggiore.
Per queste ragioni è fondamentale che ci sia, da parte dello studente, un lavoro interiore sulle attribuzioni causali, il quale permetta di attribuire al solo impegno la qualità del rendimento scolastico. La motivazione dei voti bassi deve essere vista, dunque, come una pianificazione sbagliata dei propri compiti, piuttosto che a fattori considerati non modificabili come ad esempio la scarsa intelligenza.
Giulia Carrara
Bibliografia
Alesi, M., Pepi A. (2008), Il profilo motivazionale scolastico nello sviluppo tipico e atipico. Unicopli
Moè, A., (a cura di), Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Erickson, Trento 2000
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