In Italia ogni discorso intorno ai rom tende sempre di più a strutturarsi intorno alla dicotomia del “noi/voi”, al punto che la distanza tra italiani e rom sembra essere divenuta un ostacolo insormontabile (cfr. Liberti, 2015). La «produzione dell’altro», ovvero quel processo che comporta l’attribuzione a gruppi diversi dal proprio di determinati tratti distintivi, che non necessariamente rispecchiano le loro reali caratteristiche (anzi spesso le manipolano con l’intento di declassarli), esiste presso quasi tutte le società umane. Queste, attraverso tal meccanismo, riescono ad incanalare tensioni e pulsioni, finendo per percepirsi come entità “buone” in opposizione a entità “cattive” (cfr. Mura, 2012). Nel nostro paese questo processo prende forma all’interno di dinamiche singolari.
La diffusione, presso gli italiani, di pregiudizi e stereotipi negativi riguardo ai rom è ampiamente testimoniata.
Tali preconcetti, oltre a influenzare la percezione collettiva, finiscono per occultare le reali e particolari esperienze storico-culturali di questi gruppi. È in atto, infatti, un meccanismo di omologazione delle differenze e di confinamento in categorie prestabilite, che è percettibile già a partire dalla terminologia utilizzata per riferirsi a tali persone. Quelli che oggi raggruppiamo nella generica categoria “rom” (termine che per l’esattezza indica solo uno dei principali gruppi etnici della popolazione di lingua romaní) sono gli stessi gruppi che fino a qualche tempo fa indicavamo, in modo altrettanto generico e in un’accezione più marcatamente dispregiativa, con l’appellativo di “zingari”1.
La maggior parte dei pregiudizi sui rom si basano su falsi presupposti che, come si vedrà, sono stati ampiamente smentiti dalle numerose indagini condotte a riguardo (per informazioni più dettagliate rimando al volume RomAntica cultura, citato in bibliografia). Tra i più frequenti troviamo:
- l’idea che tutti i rom presenti in Italia siano stranieri (in realtà esistono molti rom e sinti di nazionalità italiana con una lunghissima storia di permanenza sul territorio italiano, che in molti casi risale al periodo tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo) (cfr. Melis, 1995; Pontrandolfo, 2013);
- l’idea che la maggior parte dei rom si trovi in Italia, mentre è tra i paesi con la più bassa percentuale di rom presenti sul suo territorio, lo 0,2 % della popolazione, cioè circa 150.000 persone (Ibidem);
- l’idea che tutti i rom siano nomadi, attualmente circa l’80% della popolazione rom europea è sedentaria (cfr. Pontrandolfo, 2013).
Oltretutto, pregiudizi del genere sono alla base di una campagna propagandistica il cui messaggio vorrebbe rappresentare queste persone come un’emergenza e come un fenomeno di invasione, tale da richiedere la dichiarazione dello stato d’eccezione e di misure straordinarie. Questo percorso ha portato, nel 2008, all’emanazione di un decreto governativo che istituiva la cosiddetta “emergenza nomadi”2. Al centro del decreto vi era la questione della residenza dei rom e, in particolare, la residenza all’interno dei cosiddetti “campi nomadi”.
I campi nomadi sono dunque il risultato concreto di una serie di azioni amministrative volte a «minimizzare la presenza “zingara”, facendo sì che, quando questa non possa essere rimossa, essa rimanga comunque in condizioni di precarietà giuridica» (cfr. Simoni, 2013). La generalizzazione sul nomadismo dei rom diventa uno strumento pericoloso quando, in casi come questo, finisce per costituire un alibi tipico ad uso delle istituzioni che hanno a che fare con essi: far risalire le culture rom a uno stile di vita nomade è un modo per «giustificare politiche intrise di precarietà e sgomberi forzati, perché “tanto sono rom”, sono nomadi, ed è nella loro cultura muoversi» [Mura, 2012].
Sul piano sociale quella che si configura è una situazione di separazione degli spazi tra “popolazione maggioritaria” e “rom”.
I campi producono alterità e si caratterizzano, secondo Todesco, come uno «strumento per destrutturare e costruire l’identità rom da parte dei non-rom» (Ivi).
La questione dell’alloggio dei rom è da sempre fonte di tensioni che spesso sfociano nella costituzione di comitati contro la presenza zingara nelle città, volti a manifestare il disagio nei confronti di uno stile di vita – quello rom – che potrebbe intaccare la sicurezza dei quartieri limitrofi.
La segregazione e il rifiuto che si producono da queste dinamiche hanno condotto i rom a costruire un meccanismo di autosegregazione e a instaurare rapporti strettamente strumentali con i gagè (termine della lingua romanì con cui essi indicano i non-rom o meglio tutti coloro che non appartengono alla dimensione romanì).
Tra gli effetti di questa segregazione vi sono, da un lato, un rafforzamento dell’identità e dell’appartenenza al gruppo e, dall’altro, la produzione di un più netto confine “noi/loro” che rafforza il senso di alterità. Tale sentimento, può a sua volta degenerare in sentimenti di discriminazione e dunque portare a un deficit dei rapporti, della partecipazione alla vita cittadina e dell’accesso ai servizi pubblici.
Secondo il sociologo Luigi Manconi, l’esistenza dei campi nomadi produrrebbe due processi che si alimentano a vicenda: da un lato, c’è la tendenza da parte dei rom presenti nei campi ad «autoghettizzarsi dentro quella dimensione circoscritta e coatta di marginalità sociale e autogoverno, dove si producono circuiti illegali e relazioni di potere», mentre, dall’altro, «chi abita vicino a quei campi, e non solo, si convince del fatto che rappresentino una costante minaccia e, dunque, oscilla tra volontà di chiuderli in maniera definitiva e tentazione di “spazzarli via” con ogni mezzo» (cfr. Manconi, 2015). In questo senso, i campi nomadi si presentano come contemporaneamente causa ed effetto della discriminazione nei confronti di queste persone.
1Per comodità continueremo ad utilizzare il termine Rom, tenendo presente che nella recente ricerca scientifica al riguardo si è scelto di utilizzare l’appellativo “Rom d’Europa” in relazione all’insieme delle comunità definite generalmente “zingare”.
2Il decreto si riferiva agli insediamenti abusivi in cinque regioni italiane (Campania, Lombardia, Lazio, Piemonte e Veneto). Tale decreto è stato successivamente dichiarato illegittimo dalla corte di cassazione.
Bibliografia
Melis, A., La terza metà del cielo. Saggio sulla storia, gli usi e i costumi del popolo rom, Gia Editrice, 1995
Monasta, L., “I pregiudizi contro gli “zingari” spiegati al mio cane”, in Montecchiari V., Guerrini M. e Venturini V. (a cura di), RomAntica cultura. Invisibilità ed esclusione del popolo rom, Cesvot Toscana, 2013
Mura, V., “La produzione dell’altro e l’educazione al confronto. Riflessioni sul rapporto con i Rom”, in Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno I Numero I, 2012
Pontrandolfo S., “I rom d’Europa”, in Montecchiari V., Guerrini M. e Venturini V. (a cura di), RomAntica cultura. Invisibilità ed esclusione del popolo rom, Cesvot Toscana, 2013
Simoni, A., “Il mito del diritto “neutrale” e la ziganofobia. Osservazioni a partire dal “pacchetto sicurezza” del 2009”, in Montecchiari V., Guerrini M. e Venturini V. (a cura di), RomAntica cultura. Invisibilità ed esclusione del popolo rom, Cesvot Toscana, 2012
Sitografia
I Rom sono il capro espiatorio perfetto, in http://www.internazionale.it/opinione/luigi-manconi/2015/04/08/rom-capro-espiatorio
L’incontro mancato tra italiani e rom, in http://www.internazionale.it/opinione/enrico-parenti/2015/06/05/rom-integrazione
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