«La giovinezza è l’unica cosa che valga la pena di possedere».
È con queste parole che un cinico Lord Henry si rivolge a Dorian Gray, protagonista del famoso romanzo di Oscar Wilde, innescando in lui quel processo che lo porterà alla presa di coscienza della terribile “condanna” che grava su ogni uomo: invecchiare.
Potrebbe sembrare una questione prettamente contemporanea ma la riflessione sul senso da attribuire ad essa non è affatto prerogativa dei “nostri tempi”. Età, giovinezza e vecchiaia sono tre temi sui quali l’uomo sembra si sia sempre interrogato. Secondo Hoppe e Wulf «La vecchiaia non è solo il risultato di un processo fisico ma anche il risultato di un processo culturale. In diverse culture ed epoche storiche essa significa perciò qualcosa di diverso» [Wulf, 2002: 400].
Numerose, ad esempio, sono le attestazioni pervenuteci dall’antica Grecia: Lisandro, Democrito, Platone e tanti altri scrittori classici hanno lasciato testimonianze inequivocabili sui modi differenti di concepire l’età e la vecchiaia. Nelle poleis classiche il ruolo degli anziani assumeva valori differenti: mentre ad Atene la loro posizione non era politicamente rilevante (sebbene degna di nota e rispetto), a Sparta il consiglio degli anziani (gerusia) incideva sui processi di governo e rendeva gli individui d’età avanzata centrali nelle dinamiche collettive, tutto ciò in un mondo in cui il raggiungimento dello status di anziano rappresentava comunque un evento eccezionale, data l’aspettativa di vita che si aggirava intorno ai quarant’anni. Questo diverso modo di dare un significato all’ età di un individuo, al tempo che passa e quindi alla vecchiaia, ha da sempre rappresentato uno degli elementi distintivi dei sistemi culturali delle società.
Che l’età e la sua percezione siano prettamente legate al lavorio culturale degli uomini, un’invenzione, se così si può dire, lo dimostra la stessa ambiguità del termine che la definisce.
Nel linguaggio odierno, parafrasando Augé, il termine “età”, declinato al presente, rappresenta il senso del tempo che passa e l’ineluttabilità dell’effetto che ha sull’uomo, mentre al plurale le età sono viste come la positività della progressione, della continua crescita, del succedersi delle generazioni (cfr. Augé, 2014). Interessante è riflettere sugli “effetti” che una determinata concezione del tempo che passa, dell’età e la vecchiaia può produrre sulle dinamiche sociali di un contesto (come ad esempio quello occidentale) e sui comportamenti di chi lo abita. Essere giovane o vecchio non è una condizione del tutto oggettiva poiché, come sostiene Bourdieu «l’età è un dato biologico socialmente manipolato e manipolabile» [Bourdieu, 1984:145]. Sulla scorta di questa riflessione del sociologo francese, può risultarci più agevole comprendere come la società contemporanea, grazie ad artifici e meccanismi culturali trasmetta una sorta di scala di valori, attraverso la quale regolare il rapporto con il tempo e, così, definire le categorie di vecchiaia e giovinezza attraverso una serie di codici. La moda può essere considerata, secondo Monneyron, uno di questi meccanismi contemporanei che produce senso e simboli votati a “delineare” le fasi della vita. Negli ultimi sessant’anni essa ha sempre intrattenuto con il tempo una relazione che la vedeva da un lato proiettata al futuro e dall’altro sempre più legata a giovinezza ed adolescenza, fino ad identificarsi con queste ultime, arrivando all’invenzione della «giovinezza come categoria sociale» (cfr. Monneyron, 2006).
Il “meccanismo” della moda quindi funziona attribuendo, ad esempio, ad una determinata età un tipo di vestiario da indossare, fino ad influenzare la stessa percezione del corpo, tracciando una “mappa dei segni” che fanno appartenere o meno alla categoria della giovinezza (Tingersi i capelli si potrebbe considerare una pratica legata ad una “contemporanea esigenza di costume” per rientrare nella categoria). La sempre più stretta identificazione con la giovinezza lascia trasparire una relazione con il tempo in cui l’obiettivo è la sospensione di quest’ultimo per scongiurare la paura più grande legata all’«angoscia della morte» (Ibidem).
Dall’angoscia per la morte all’inquietudine per il sopraggiungere della vecchiaia (o viceversa) il passo è breve.
Essa si materializza con segni percepiti come “indecorosi” sui corpi un tempo “immacolati”, segni da allontanare, spesso insieme a chi ne è portatore. «L’anziano scivola lentamente fuori dal campo simbolico1, deroga ai valori centrali della modernità: la giovinezza, la seduzione, la vitalità, il lavoro. E’ l’incarnazione del rimosso […]. Immagine intollerabile di un invecchiamento che si appropria di ogni cosa in una società che ha il culto della giovinezza e che non sa più simboleggiare il fatto di invecchiare e di morire […]. L’anziano procede verso la morte, incarna in sé i due indicibili della modernità: l’invecchiamento e la morte» [Le Breton, 2007:162].
In uno scenario sociale dove la morte viene rimossa, perché dirompente e scandalosa, non meraviglia dunque assistere anche al tentativo di rimozione di tutti quei segni che materialmente simboleggiano il suo approssimarsi. Si innesca una sorta di resistenza culturale agli “effetti del tempo”, come se chi mostra la propria età fosse passivo al tempo e cedesse ai segni del suo passaggio, lasciando così spazio su di sé alla “volgarità della vecchiaia” (cfr. Augé, 2014). È per questo motivo che ci si affanna ad insegnare al corpo a dissimulare la propria età, a mentire su essa e nasconderla con le tecniche più disparate, tecniche grazie alle quali chi abita il contesto occidentale può “comprare” (almeno apparentemente) una fetta di giovinezza e sotterrare i segni della vecchiaia sempre più inaccettabile perché apparentemente privata di ogni valore intrinseco.
Secondo Hoppe e Wulf, il «processo di svalutazione della vecchiaia» viene rafforzato da quella «svolta demografica» che vedrà nel 2030 una quota di “ultrasettantenni” pari al 30% della popolazione. La vecchiaia così non rappresenterà più l’eccezione ed un valore aggiunto legato al “sapere esperienziale” che essa porta con se (come nella Grecia classica), ma un peso. «All’accelerazione della vita corrisponde l’impressione che il sapere abbia vita breve. L’allungamento delle aspettative di vita rafforza questa prospettiva: una vita sembra troppo lunga perché un sapere possa bastare; il patrimonio del sapere sembra troppo grande perché ci si possa distinguere nella vecchiaia grazie alle proprie profonde conoscenze. Vecchiaia e saggezza non vengono più direttamente associate. Così la vecchiaia perde una competenza essenziale, sulla quale avveniva il suo riconoscimento» [Wulf, 2002:400].
Comincia ad essere più chiaro che l’età non è considerabile del tutto oggettiva ma frutto di relazioni che si instaurano con se stessi e con il contesto che si abita: essere giovani significa trovare riscontro negli altri e non può che considerarsi anche un prodotto del rapporto con la collettività, la quale fornisce ad ognuno un’identità. Una sorta di riconoscimento, di accettazione da ricercare nel gruppo, anche per questo nasce la questione dell’essere giovani e mostrarsi tali, seguendo i dettami sociali che simbolicamente definiscono la “freschezza dell’età” (cfr. Augé, 2014).
Ecco perché se alla domanda “quanti anni mi dai?” il nostro interlocutore sbaglia dandone di meno, noi ci sentiamo soddisfatti, ma se per caso indovina o sbaglia per eccesso, un brivido di terrore scuote il nostro stato d’animo, suscitando la “terrificante” presa di coscienza che il tempo passa e che il nostro fisico ne è dimostrazione*. Proprio in virtù delle relazioni e del riconoscimento sociale di cui ogni individuo necessita, invecchiare può risultare inaccettabile ai “nostri occhi”, agli occhi della “nostra” cultura.
In un contesto culturale ipermedicalizzato la vecchiaia è come un male da sconfiggere, che attenta alla “sanità” della giovinezza e dunque alla vita stessa, la quale (secondo questa concezione) sembra rimanere tale soltanto se adornata di vigore, forza, perfezione e buona salute di un corpo che muta e che ossessivamente si vuole preservare immutabile. Ma tutto questo sarebbe negazione dell’esistenza stessa, poiché, come affermano Hoppe e Wulf, parafrasando Cramer, «se non invecchiassimo e alla fine morissimo, non saremmo vivi» [Wulf, 2002:402].
Antonio Severino
*Sarebbe necessario ritagliare un piccolo spazio riflessivo anche sulle varie modalità di comportamento del “mostrarsi giovani” legate ad atteggiamenti “infantili” o vezzi “adolescenziali” assunti da individui adulti. Cedo un assist ai colleghi psicologi, in questo caso, data la mia scarsa competenza in merito.
1Vale a dire fuori da quel campo di simboli che la cultura determina come identificativi della giovinezza e che, con l’andare del tempo, il decadimento fisico tende a far scomparire dal corpo dell’individuo
Bibliografia
Augé, M., Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste, Raffaello Cortina, Milano, 2014
Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 2015
Bourdieu, P., Questions de Sociologie, Minuit, Paris, 1984
De Luigi, N., I confini mobili della giovinezza. Esperienze, orientamenti e strategie giovanili nelle società locali, Franco Angeli, Milano, 2007
Le Breton, D., Antropologia del corpo e modernità, Giuffrè, Milano, 2007
Monneyron, F., Sociologia della moda, Laterza, Roma – Bari, 2008
Wilde, O., Il ritratto di Dorian Gray, 1981
Wulf, C., (a cura di), Le idee dell’antropologia, Mondadori, Milano, 2002
Sitografia
Sardina, M., Una vecchia storia. Storia della vecchiaia dalla Grecia arcaica alla tarda antichità, in amedit.wordpress.com: https://amedit.wordpress.com/2014/03/31/una-vecchia-storia-storia-della-vecchiaia-dalla-grecia-arcaica-alla-tarda-antichita/
Video di riferimento
Estratto dal film Gli aristogatti 1970. L’avvocato George “gioca” con la sua vecchiaia: https://www.youtube.com/watch?v=4gcqsCtYGMs
Letture da La fine è il mio inizio di Tiziano Terzani: https://youtu.be/mdM0MGxoRqk