Provate a chiudere gli occhi, dopo aver letto queste prime righe, e ad accavallare le gambe l’una sull’altra. Provate poi, sempre tenendo gli occhi ben chiusi, a stendere in avanti il braccio sinistro e a toccarvi la punta del naso con l’indice della mano destra. Non dovrebbe essere stato troppo difficile per voi portare a termine questi pochi, semplici compiti. Anzi, probabilmente siete riusciti ad eseguire il tutto con un elevato grado di precisione e naturalezza, nonostante i vostri occhi fossero chiusi e il vostro cervello non avesse ricevuto nessuna informazione visiva sulla posizione del vostro corpo.
Quello che avete appena sperimentato è l’incredibile risultato del lavoro dei recettori cinestetici (parola che deriva dal greco kinein, ‘muovere’, e aisthesis, ‘sensazione’): questo particolare tipo di neuroni innerva infatti i muscoli, i tendini e le articolazioni, e rientra nel più grande complesso dei meccanocettori tattili. Grazie all’estensione o alla contrazione di un gruppo muscolare questi recettori, suscettibili alla pressione meccanica, sono in grado di generare una serie di impulsi nervosi i quali – una volta analizzati dalle aree della corteccia cerebrale motoria – determinano la percezione del nostro corpo nello spazio. Senza l’ausilio di questi neuroni non avreste la minima idea di dove il vostro braccio potrebbe trovarsi, a meno che prima non vi posiate lo sguardo sopra; con gli occhi chiusi non sapreste discriminare la posizione delle vostre gambe, e non sareste neanche in grado di dire se, in questo preciso momento, siete seduti su una sedia o siete sdraiati sul vostro letto. Quando ci muoviamo, il nostro corpo bilancia l’attività delle fibre muscolari attraverso uno schema motorio estremamente complesso ed armonizzato; senza di esso, non potremmo coordinare i singoli muscoli in maniera adeguata: correre, o camminare, risulterebbe difficilissimo. E se, per qualche motivo, non foste in grado di ricreare quello schema? Se vi trovaste da un giorno all’altro “disincarnati” nello spazio, come reagireste? Come pensereste di poter affrontare la vita, con queste premesse?
Quando anche solo alzarsi dal letto la mattina appare impossibile, è facile convincersi che passerai il resto dei tuoi giorni su una sedia a rotelle. Eppure c’è chi, nonostante tutto, ha avuto la forza di scontrarsi con questa realtà beffarda; c’è chi questa folle condizione l’ha affrontata e, incredibilmente, l’ha vinta. Ian Waterman non si sarebbe mai arreso, nonostante lo scetticismo dei medici che lo hanno accompagnato nella prima parte del suo percorso di recupero; non avrebbe mai rinunciato al suo desiderio di vivere una vita normale, nonostante l’incomprensibilità della sua situazione. Quella che state per leggere è la storia di chi la vita l’ha dovuta combattere senza mai toglierle gli occhi di dosso: è la storia dell’uomo che smarrì il suo corpo. Ian Waterman aveva appena terminato l’apprendistato come macellaio quando, all’età di diciannove anni, fu colpito da quella che sembrava essere una normale gastroenterite. Durante la convalescenza, tuttavia, Ian sviluppò una risposta autoimmune, e gli anticorpi prodotti dal suo organismo cominciarono ad attaccare i recettori cinestetici; il risultato di questa disastrosa reazione non fu la perdita del movimento, di cui egli gode tuttora, bensì la perdita della sensibilità del proprio corpo.
Correva il 1972 e nella contea inglese dell’Hampshire, dove Ian all’epoca viveva, nessuno riusciva a giustificare la sua devastante condizione clinica. Confinato per i successivi tre anni su una sedia a rotelle, Waterman percepiva normalmente il dolore e le variazioni di temperatura sulla pelle; poteva muovere i propri arti ma, senza la percezione cinestetica, non poteva dir loro cosa fare. La perdita della cinestesia è una condizione talmente rara che in letteratura si contano a malapena una decina di casi; se ciò non fosse sufficiente a rendere questa storia abbastanza unica, Waterman è stata la prima persona affetta da tale disturbo in grado di mantenere correttamente la posizione eretta, di afferrare un oggetto e persino di camminare autonomamente. Come molti di coloro che lo hanno seguito ed intervistato riportano, senza un’attenta osservazione oggi risulta molto difficile distinguere Ian da qualsiasi altra persona che goda di una normale sensibilità cinestetica.
Nel 1975, dopo quasi tre anni di sfiancanti tentativi, per la prima volta dall’insorgenza del disturbo Ian riuscì a sollevarsi e a mettersi a sedere sul letto; come afferma lui stesso in un documentario girato successivamente dalla BBC (The man who lost his body, 1998), “ricordo molto bene la prima volta che riuscii ad alzarmi dal letto e a sedermi: ero così euforico che persi completamente il controllo e ricaddi subito all’indietro. Persi completamente il controllo e non mantenni tonica la muscolatura assiale. Quel semplice atto fu la riprova che avrei dovuto controllare qualsiasi movimento, per il resto della mia vita”. Da autodidatta, Ian abbandonò gradualmente la sedia a rotelle. Osservò la sua postura, cercando di capire quali muscoli fossero coinvolti nello sviluppo del movimento e come questi influissero sul suo equilibrio.
Giorno dopo giorno, senza mai staccarsi gli occhi di dosso, Ian ripeté quegli stessi movimenti fino a che il suo corpo non iniziò ad obbedirgli nuovamente. Riprese lentamente a gesticolare, a camminare, a vivere. Col tempo, comprese che gli occhi avrebbero dovuto dirgli ciò che i suoi recettori cinestetici non erano più in grado di fare. Le persone che oggi lo guardano destreggiarsi nella quotidianeità vedono un uomo qualsiasi che compie azioni normali; per Ian ciascuna di quelle azioni rappresenta una sfida: qualsiasi gesto, dal più complesso al più semplice, deve prima essere pianificato con estrema precisione, per poi essere eseguito con altrettanta consapevolezza. La sua vita è un’infinita pantomima, nella quale ciascun movimento è una coreografia inscenata per mantenere una parvenza di normalità. Nonostante le difficoltà, Ian oggi gestisce con estrema soddisfazione un allevamento di tacchini con sua moglie Linda, e fornisce attivamente assistenza alle poche persone che vivono la sua stessa condizione. Data la sua storia, ha inoltre collaborato come soggetto nello sviluppo di un interessante filone di ricerca nell’ambito dello studio sulla gesticolazione, sotto la direzione del dipartimento di psicolinguistica dell’università di Chicago.
Nella sua biografia “Pride and a daily marathon”, uscita nel 1995, Ian Waterman non si definisce certo un eroe, nonostante la determinazione mostrata nel corso della sua intera vita; non vuole essere considerato niente di più che un uomo normale, con tutti i dubbi, le paure e le speranze di qualsiasi altra persona. Ci sono giorni nei quali sopportare le difficoltà, derivanti soprattutto dal suo handicap, risulta più facile, mentre in altri vorrebbe solamente fuggire via e lasciarsi tutto alle spalle: proprio come accade a ciascuno di noi. E quando gli chiedono cosa lo abbia spinto a lottare con tanta forza contro questo suo assurdo male, risponde semplicemente che, per lui, “è dura sopravvivere in questo mondo, a volte troppo. Ma o impari a nuotare, o affoghi. In fondo, non provare a vivere al meglio delle proprie possibilità significa solamente arrendersi”. E se Ian si fosse arreso, oggi racconteremmo la sua storia con un tono decisamente diverso.
Nicola Domenici
Bibliografia
Cole, J. (1995), Pride and a daily marathon. MiT Press, Cambridge.
McNeill D., Quaeghebeur L. & Duncan S. (2008), IW-The man who lost his body. Handbook of Phenomenology and Cognitive Sciences, 1-22.
Sacks, O. W. (2001) L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano, 2001.
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