Si sente parlare sempre più spesso di crisi dei rifugiati, di richiedenti asilo, di clandestini… Ma su cosa si fondano queste definizioni/etichette? Quali sono i criteri con cui vengono applicate? Può uno sguardo antropologico aiutarci a districare i fili che costituiscono una definizione legale dalle loro implicazioni identitarie più ampie ma anche più personali?
Ecco alcune domande che probabilmente molti si sono posti nel tentativo di sciogliere il caos mediatico attuale. Questo articolo propone alcune considerazioni e analisi di pro e contro, con nessuna pretesa di poter indicare risposte univoche:
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1. Chi sono i rifugiati?
Esistono diverse definizioni di rifugiato, ma la più riconosciuta a livello internazionale è quella data dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (assieme al protocollo del 1967), secondo la quale rifugiato è «chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato» [Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo I, art. 11].
Pro e contro della definizione:
Pro: il fatto che 148 stati abbiano sottoscritto la Convenzione sullo Statuto dei Rifugiati (per una lista completa dei firmatari: http://www.unhcr.org/3b73b0d63.html) la rende di per sé un potente strumento per facilitare gli aiuti umanitari e il coordinamento tra nazioni. L’organo delle nazioni unite addetto alla protezione e trattamento dei rifugiati, l’UNHCR (United Nations High Commissioner for the Refugees), può quindi compiere la propria attività in relativa autonomia.
Contro: questa definizione, come fa notare l’antropologa Liisa Malkki, non scalfisce “l’ordine nazionale delle cose” [cfr. Malkki, 1995b], ma anzi rafforza l’idea di confine e di autorità statale. Ci sono inoltre situazioni che la definizione impedisce di riconoscere, come per esempio gli IDP (Internally Displaced People), tutti coloro che, nonostante il più che giustificato timore di essere perseguitati, non dispongono delle risorse (economiche o sociali) necessarie per attraversare il confine dello Stato che non può garantirne la sicurezza (oppure è la causa stessa della loro insicurezza). È questo per esempio il caso dei 500,000 IDPs causati dal conflitto in Kosovo del marzo 1999 (cfr. Barutciski, 1999), ma è anche la situazione dei Curdi tra Turchia, Siria e Iraq, dei Tamil in Sri Lanka e di 20 milione di persone in altri 40 Stati (cfr. Cohen; Korn, 1999). Un’altra situazione resa invisibile è quella dei cosiddetti Enviromental Displaced People (Profughi per cause ambientali), o Development Induced Displacements (Profughi indotti dallo sviluppo), i primi in fuga da catastrofi naturali (Tsunami, inondazioni…), i secondi forzati ad emigrare dai loro territori per fare spazio a progetti di sviluppo. Il caso del Sardar Sarovan Project in India è un esempio del secondo tipo (cfr. Roy, 2002).
Sia pro che contro: il fatto che venga usata l’appartenenza ad un “gruppo sociale” come motivo di persecuzione può essere interpretato in maniera ambivalente per quanto riguarda i casi di violenza di genere o di persecuzione per sessualità non binarie, allo stesso tempo però, può essere considerata una categoria abbastanza ampia per includervi queste persone.
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2. Che cosa implica lo status di rifugiato?
Secondo la Convenzione del 1951 sono accordati ai rifugiati tutti i diritti che lo Stato concede ai propri cittadini (cfr. Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo II, art. 12). Lo status di rifugiato consente quindi di accedere almeno a protezione, alloggio, accesso all’educazione e supporto economico. È presente inoltre un articolo in cui si incoraggiano gli Stati firmatari a «parificare ai diritti dei loro cittadini quelli di tutti i rifugiati per quanto concerne l’esercizio delle professioni dipendenti» [Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo III, art. 17].
In materia di alloggio è esplicitamente prescritto «il trattamento più favorevole possibile e in ogni caso un trattamento non meno favorevole di quello concesso, nelle stesse circostanze, agli stranieri in generale» [Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo IV, art. 21].
Pro e contro della definizione:
Pro: a chi viene riconosciuto come rifugiato in Europa sono concessi gli stessi diritti dei cittadini europei, tra i quali molto importante è la libertà di transito all’interno dell’Unione. Effettivamente viene data la possibilità di sfuggire dal circuito di aiuti e campi profughi per conseguire una sorta propria autosufficienza. Lo statuto di rifugiato consente anche la riunificazione familiare, pur con diverse modalità a seconda delle leggi dello Stato di domicilio.
Contro: i diritti accordati ai rifugiati non sono gli stessi che vengono accordati ai cosiddetti “richiedenti asilo” o a coloro che ricadono nella categoria di protezione di tipo B (Protezione umanitaria temporanea). All’interno poi della categoria dei rifugiati, quella che è strutturata come una definizione burocratico-legale, diventa un’etichetta che assume carattere identitario, diffonde un preciso stereotipo del rifugiato (cfr. Malkki, 1994b,1996) e costringe le persone che desiderano avere accesso ai benefici ad esso connessi, ad adattarsi a definizioni imposte dall’alto. L’etichetta è quindi una descrizione “conveniente” di come un rifugiato debba essere e comportarsi (nel senso comune è stato a lungo uno scandalo che i rifugiati chiedessero accesso a connessioni wi-fi o avessero smartphones) funzionale molto spesso per le rivendicazioni politiche delle compagini di destra (cfr. Zetter, 1991,2007).
Un esempio antropologico di questa performatività dell’etichetta può essere tratto dall’ormai classico lavoro di Liisa Malkki tra i rifugiati Barundi in Tanzania: appena entrava nel circuito degli aiuti umanitari, il rifugiato veniva trattato e immaginato come una categoria ideale, dotato di una “corporeità anonima”, unicamente destinatario di cura, rimosso dalla sua dimensione politica e sociale, in una prospettiva che Agamben avrebbe poi definito come riduzione dell’essere umano a “nuda vita” (cfr. Agamben, 1995). Anche la rappresentazione visuale aveva un suo stereotipo dominante e significativamente Malkki riporta il commento di un direttore del TCRS (Tanganyika Christian Refugee Service), ente incaricato della gestione di uno dei campi: «Dovrei mostrarti un documentario realizzato da dei norvegesi sui primi rifugiati che arrivarono dal Burundi. Uno mostrava una ferita da arma da fuoco, un altro un taglio, vestiti strappati, sporchi… Non possedevano nulla… Queste persone adesso non assomigliano più a dei rifugiati. Se ti rechi a Mishamo [campo profughi] come visitatrice, penserai che quelle sono persone comuni» [Malkki, 1996:384–TdA].
Anche nelle Commissioni Territoriali italiane, gli enti incaricati di esaminare, approvare o respingere le richieste di asilo, la priorità viene accordata a segni visibili (o registrati clinicamente) di violenza subita, le voci delle persone coinvolte nella maggior parte dei casi non sono ascoltate (molto spesso non si dispone nemmeno di interpreti) e le loro storie maggiormente soggette a pregiudizi di infondatezza (per un’accurata analisi delle procedure di asilo in Italia (cfr. Sorgoni, 2013).
La questione che potrebbe sorgere è come si è arrivati ad attribuire una sostanzialità specifica (“come deve apparire un rifugiato”) a quella che per costituzione è una categoria puramente giuridica. Una delle cause, certamente non l’unica, è indicata da Zetter nell’impegno attivo degli Stati per contenere le migrazioni, il quale ha prodotto una proliferazione di nomenclature e una frammentazione della categoria di rifugiato in numerose sottocategorie di recente creazione ed entrate anche nel linguaggio comune (richiedente asilo, migrante economico, clandestino) quasi a suggerire che possa essere fatta una netta distinzione tra “rifugiati meritevoli” e “richiedenti asilo menzogneri” (cfr. Zetter, 2007).
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3. Qual è la differenza tra rifugiato e richiedente asilo?
In termini legali, la categoria di richiedente asilo manca tuttora di una definizione condivisa, ma è possibile considerarla come una frammentazione della definizione di rifugiato (cfr. Zetter, 2007). Benché il diritto di presentare domanda di asilo sia universale, alcuni Stati hanno sfruttato le lacune legislative internazionali per esternalizzare il proprio confine, allestendo campi che non sono propriamente all’interno del territorio nazionale (per esempio Calais in Francia, gli accordi Italia-Libia o il processo di Khartoum) (cfr. Morone, 2016), nei quali vengono processate, approvate o respinte le domande senza che gli obblighi legali di protezione e presa a carico siano applicati. I richiedenti asilo sono coloro che, relegati in campi in zone periferiche dello Stato (cfr. Pinelli, 2013,2015), sono in attesa che la loro domanda venga processata dagli apparati burocratici, senza godere di alcun diritto che esuli dalla mera protezione umanitaria, in molti casi paradossalmente disumanizzante (cfr. Malkki, 1995). In caso venga approvata la loro pratica, viene accordato lo statuto di rifugiato; in caso contrario vengono rimpatriati, o comunque rilasciati senza alcun documento legale fuorché un permesso temporaneo, allo scadere del quale vengono chiamati “clandestini”.
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4. Chi sono i “clandestini”?
“Clandestino” è una categoria che non ha nessun valore legale prima della procedura di registrazione della domanda di asilo, ed anche in seguito a questa, è una definizione con una forte connotazione politica. È errato definire coloro che approdano sulle coste di Lampedusa o dell’isola di Lesbo come “clandestini”. Il principio di Non-refoulement (non respingimento) della Convenzione sancisce chiaramente che «nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche» [Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo V, art. 33]. Tutti hanno diritto di attraversare un confine e fare domanda asilo, ma molto spesso queste richieste sono influenzate dalle etichette imposte dagli Stati, nel perenne tentativo di attuare misure deterrenti e di controllo interno dei migranti (cfr. Zetter, 2007). Lo statuto di rifugiato, che voleva garantire una protezione di base a tutti coloro in fuga da conflitti, diventa così un premio privilegiato che solo in pochi riescono ad ottenere (Ibidem).
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5. La chiusura dei confini è una soluzione realistica? Quali alternative ci sono?
La soluzione della chiusura dei confini, oltre a contravvenire al principio di Non-Refoulement, e quindi costituendo una violazione dei diritti umani (per la quale l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 20122), si è dimostrata essere un pessimo deterrente per le migrazioni. Il flusso non è calato, ma sono aumentati considerevolmente i rischi e il prezzo del viaggio di fuga e ha di fatto consegnato i migranti agli abusi dei trafficanti, costretti ad utilizzare vie “illegali” e sempre più pericolose. Il processo di inclusione è sempre più rischioso anche per l’infinita frammentazione delle definizioni nella quale lo Stato si impegna per escludere il maggior numero di persone dall’ambito premio del diritto di asilo (cfr. Zetter, 2007). Un’alternativa praticabile (ma utopica) sarebbe una maggiore permeabilità dei confini e una rapidità nel processare le domande di asilo, in ogni caso garantendo la libertà di movimento all’interno dello Stato ospitante e incoraggiando la ricostruzione di una vita dignitosa nello Stato di asilo. La creazione di “canali sicuri” controllati dall’Onu per facilitare la fuga delle popolazioni coinvolte in conflitti e violenze potrebbe diminuire il tasso di mortalità del viaggio. In ogni caso sarebbero necessarie riforme strutturali per una maggiore politica dell’accoglienza e del coordinamento comune delle azioni umanitarie, nonché una riformulazione più inclusiva della categoria di rifugiato (cfr. Castles; Miller, 2013).
Parole d’ordine di questi tempi come “rifugiati”, “richiedenti asilo” o “clandestini”, se analizzate da vicino, presentano contorni piuttosto sfumati, ridefiniti in continuazione da particolari relazioni di potere; nonostante i confini delle nazioni sembrino più solidi che mai, quelli tra le persone sono sempre stati fluidi ed impossibili da definire. In definitiva l’unica domanda che possa fare riflettere concretamente su possibili soluzioni è forse questa: quando si smette di essere un rifugiato? Perché’ si smetta di esserlo occorre che il proprio status cambi da rifugiato a cittadino o residente. Le vie in cui questo processo può avvenire, incoraggiate dall’UNHCR sotto il titolo di “durable solutions”, sono ragionevolmente due: rimpatrio nel paese d’origine o integrazione nella società di destinazione (cfr. Hansen, 1990). La legge internazionale impedisce che i rifugiati vengano rimpatriati qualora ci fosse una significativa minaccia per la loro incolumità (non refoulement), tuttavia le legislazioni particolari di un numero sempre maggiore di Stati hanno reso progressivamente più difficile l’accesso a questa protezione umanitaria ed allo stesso tempo ostacolato l’accesso alla cittadinanza, risultando nella creazione di un limbo in cui queste persone, in molti casi traumatizzate dalla guerra e sfruttate durante il viaggio per sfuggirvi, sono condannate all’inazione e all’invisibilità.
1 Questo ed i successivi articoli citati dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sono tratti dal documento ufficiale, accessibile al sito: https://www.unhcr.it/sites/53a161110b80eeaac7000002/assets/53a164240b80eeaac700012f/Convenzione_Ginevra_1951.pdf.
2 Per ulteriori informazioni, consultare BBC News, (2016). European Court censures Italy over African migrants – BBC News. [online] Available at: http://www.bbc.com/news/world-europe-17138606.
Bibliografia
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Castles, S., Miller, M., The age of migration, New York: Guilford Press, 2013
Cohen, R., Korn, D., “Failing the internally displaced”. In Forced Migration Review 5, 1999
Hansen, A., “Refugee Self Settlement versus Settlement on Government Schemes. The Long Term Consequences for Security, Integration and Economic Development of Angolan Refugees”. In UNRISD Discussion Paper 17, Geneva: UNRISD, 1990
Malkki, L., Purity and Exile: Violence, Memory and National Cosmology Among Hutu Refugees in Tanzania, Chicago, Chicago University Press, 1995a
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Malkki, L., “Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization”. In Cultural Anthropology 11(3), 1996
Pinelli, B., “Silenzio dello Stato, voce delle donne. Abbandono e sofferenza nell’asilo politico e nella sua assenza”. In Annuario Antropologia XIII (15), 2013
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Roy, A., The algebra of infinite justice, London: Flamingo, 2002
Sorgoni, B., “Chiedere asilo. Racconti, traduzioni, trascrizioni”. In Annuario Antropologia (15), 2013
Zetter, R., “Labelling Refugees: Forming and Transforming a Bureaucratic Identity”. In Journal of Refugee Studies 4(1), 1991
Zwtter, R., “More Labels, Fewer Refugees: Remaking the Refugee Label in an Era of Globalization”. In Journal of Refugee Studies 20(2), 2007
Sitografia
Morone, A. (2016) Il processo di Khartoum: l’Italia e l’Europa contro le migrazioni [online] Ispionline.it : http://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-processo-di-khartoum-litalia-e-leuropa-contro-le-migrazioni-13519.