Quando l’antropologia nel tempo si è confrontata con il tema dell’efficacia e ha cercato di definirla ha dovuto innanzitutto fare i conti col fatto che, come afferma Arthur Kleinman, «essa stessa sia un costrutto culturale» [Kleinman, in Cozzi, 2012:127] e, quindi, come non si possa prescindere dalla variabilità di contesti, concezioni e orientamenti dei diversi gruppi umani.
Salute e malattia, così come cura e guarigione, sono concetti il cui significato varia a seconda dei modelli culturali (cfr. Lupo, in Cozzi, 2012), «per quanto sia ampia la gamma di elementi che entrano in gioco nella disamina sull’efficacia terapeutica questa non potrà mai esimersi dal considerare innanzitutto le esperienze, le rappresentazioni e le valutazioni dei soggetti, le quali variano enormemente a seconda dei modelli culturali che questi avranno incorporato […]» [Lupo, in Cozzi, 2012:132]. In pratica uomini appartenenti a culture diverse patiranno malattie diverse, e altrettanto diversi saranno i modi di gestione terapeutica. Byron Good ad esempio definisce la malattia stessa non come un’entità, piuttosto come un modello esplicativo vero e proprio.
Ma come funziona l’efficacia?
Si potrebbe semplicemente affermare che è efficace ciò che debella i sintomi. Il discorso però è sicuramente più complesso, infatti con l’espressione efficacia terapeutica vengono a connotarsi tutta una serie di processi in cui si combinano le dimensioni fisiologiche, psichiche, affettive e anche sociali (cfr. Lupo, in Cozzi, 2012). Si parla anche di dimensione sociale soprattutto perché l’efficacia e la guarigione sono concetti che coinvolgono altresì il contesto sociale di provenienza del paziente, infatti, affinché un qualcosa sia efficace è necessario un consenso generale; la condizione di malattia come quella di guarigione, non sono stati puramente soggettivi. E’ per questo che lo stato di salute necessita anche del riconoscimento sociale. Non a caso può succedere spesso che il paziente si senta guarito senza che chi ha l’autorità di dichiararlo tale riscontri gli elementi per decretarlo o, viceversa, nonostante sia riconosciuto come sano il paziente in realtà non abbia ancora superato la propria condizione di malessere (cfr. Lupo, in Cozzi, 2012).
Alcuni casi etnografici specifici sono stati trattati dagli antropologi, una delle riflessioni più note e più rilevanti è quella che Levi-Strauss nel 1949 propose nel suo saggio L’efficacité symbolique.
L’autore analizzò un canto terapeutico Cuna che si diceva efficace per facilitare il travaglio, presentandoci un caso estremo dove solo il canto viene utilizzato come terapia. Esaminando attentamente il testo del canto risulta evidente il continuo passaggio “da cosmo a corpo”: come vengano continuamente richiamati modelli mitici e come essi siano strettamente connessi al corpo fisico della partoriente. Lo sciamano cantando va a recuperare nel suo viaggio estatico “l’anima della partoriente” (purba, tenuta prigioniera dal Muu), e questo viaggio verso la divinità in realtà è anche un viaggio da un punto di vista simbolico verso l’utero vero e proprio. Il mondo mitico e la realtà fisiologica si sovrappongono permettendo che l’esperienza concreta del parto si risolva proprio come l’esperienza del viaggio dello sciamano (cfr. Pizza, 2015; Lèvi-Strauss, 1964). La partoriente si trova in uno stato di semicoscienza, date le difficoltà riscontrate nel parto, e il canto permetterebbe, secondo Levi-Strauss, quella che in psicoanalisi è definita come “abrazione”, cioè il rivivere il trauma a scopo terapeutico; in questo caso però non si riporterebbe alla coscienza il nascosto interiore ma piuttosto si permetterebbe l’attivazione di meccanismi simbolici che a loro volta attiveranno altri meccanismi biologici.
In pratica il successo di molte terapie consisterebbe nella capacità di sollecitare, attraverso la costruzione di una rete di simboli, meccanismi di guarigione che sono già all’interno degli individui e che rendano accettabili alla mente dolori che il corpo non riuscirebbe a tollerare (cfr. Lèvi-Strauss, 1964).
Come mostra anche Carlo Severi (criticando e perfezionando la teoria di Lèvi-Strauss) il cervello, grazie all’azione del terapeuta (dello sciamano nel caso specifico del canto Cuna) il quale fornisce all’ammalato un linguaggio nel quale è possibile esprimere immediatamente certi stati non formulati e non formulabili, reagirebbe a determinati stati emozionali rispondendo chimicamente a livello endocrinologico (cfr. Pizza, 2015). Molti sono gli autori che sostengono e hanno sostenuto le veridicità di questa “efficacia simbolica”: ad esempio anche Raymond Prince, conferma l’idea che un’azione rituale, una manipolazione simbolica, produca un effetto somatico come il rilascio di ormoni (ad esempio endorfine) che possono favorire la guarigione attenuando il dolore.
Il lavoro di Lèvi-Strauss ha dato il via a tutta una serie di interrogativi e riflessioni su come il sistema immunitario sia influenzabile da fattori esterni oltre che interni favorendo negli ultimi decenni l’avvicinamento tra diverse discipline e permettendo la nascita della cosiddetta Psiconeuroendocrinoimmunologia, che studia proprio il condizionamento del sistema nervoso centrale sul sistema immunitario e di come esso funzioni in base alle secrezioni endogene attivate da strutture neurologiche in relazione a ragioni che hanno a che fare con la psiche (cfr. Lupo, in Cozzi, 2012).
“[…] Se tu vuoi che una cosa ti faccia bene, quella cosa ti fa bene. L’umore predispone il fisico ad accettare i farmaci […]. Se invece si ritiene la terapia un suicidio quella non funziona. Vale come per il vino: se mi piace digerisco meglio ma se sa di tappo non digerisco” – (citazione tratta dall’intervista realizzata da Arianna Drudi presso il reparto di Pneumoncologia dell’Ospedale San Camillo Forlanini di Roma, in Cozzi, 2012:155).
Bibliografia
Di Lernia, D., L’efficacia simbolica, Youcanprint edizioni, 2014
Lèvi-Strauss, C., “L’efficacia simbolica”. In Lèvi-Strauss, C., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 2009, (prima ed. 1964)
Lupo, A., “Malattia ed efficacia terapeutica”. In Cozzi, D. (a cura di), Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi editore, University Press, 2012
Pizza, G., Antropologia Medica, Carocci, Roma, 2015
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