Il “contratto a tutele crescenti” è davvero un passo avanti?

 

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Rem Koolhaas

Il 7 marzo 2015 è entrato in vigore il D.lgs. n.23/2015, denominato “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”. La Legge n.183/2014 aveva infatti delegato il governo ad approvare numerosi decreti in tema di mercato del lavoro, all’insieme dei quali lo stesso governo Renzi ha attribuito la denominazione di “Jobs Act”, prendendola in prestito dal sistema statunitense, dove aveva però diversa portata.

Ma cosa significa “contratto a tutele crescenti”? Ė questa la domanda che verosimilmente ogni italiano si è posto.

Per poter analizzare il significato e l’impatto di questo decreto bisogna però fare una premessa. L’intero Jobs Act si inserisce in un contesto in cui il tasso di disoccupazione aveva superato la soglia del 13% (un allarmante 13.3% è stato registrato dall’Istat nell’ultimo trimestre del 2014) quando il valore ante-crisi ammontava a meno della metà (6.1% nel 2007). Si può dire che è stato questo il principale motivo alla base della riforma, insieme alla oggi famosa, in origine segreta, lettera del 5 agosto 2011 scritta dalla BCE al Governo italiano, allora presieduto da Silvio Berlusconi. Il testo, reso noto nel settembre 2011, invocava l’adozione urgente di misure anche in ambito lavorativo: “Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziendee verso i settori più competitivi”.

Muovendo da questi presupposti, il governo ha modificato profondamente le tutele invocabili dal lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Partendo dal campo di applicazione, vi è un’estensione notevole rispetto al vecchio regime (rappresentato dallo Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla L. n.92/2012, c.d. “legge Fornero”), infatti il decreto si applica a tutti i datori di lavoro, di grandi e piccole dimensioni, imprenditori e non. Per quanto riguarda i lavoratori invece, il decreto si rivolge a quadri, impiegati e operai, escludendo i dirigenti. Importante è anche lo spartiacque temporale per cui tutti coloro che sono stati assunti prima del 7 marzo 2015 non vengono investiti dalla riforma.

Ma veniamo alle tutele: in un’ottica di flessibilizzazione e incoraggiamento dei datori a nuove assunzioni, la legge delega del 2014 indicava i criteri da seguire nella realizzazione dell’intera riforma, in particolare il governo era chiamato ad intervenire prevedendo per il lavoratore licenziato un “indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione”.

Oggi, dunque, le tutele per un lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, il quale sia stato licenziato illegittimamente, si sostanziano per lo più in tutele indennitarie (ossia un pagamento in denaro a titolo risarcitorio) calcolate sulla base dell’anzianità di servizio. Ciò significa che si perde il posto di lavoro, indipendentemente dai motivi per cui si è stati licenziati. La tutela reintegratoria (ossia il reintegro del lavoratore nel posto di lavoro) rimane solo per i casi di licenziamento più gravi:

  • Licenziamento intimato in forma orale;
  • Licenziamento nullo per discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali, ma anche basata sull’appartenenza a organi sindacali;
  • Licenziamento nullo per altri casi espressamente previsti dalla legge (ad esempio, il licenziamento della lavoratrice madre in maternità);
  • Licenziamento ingiustificato per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.

Per questi pochi casi la legge prevede una tutela reintegratoria c.d. “piena”, permettendo al lavoratore di scegliere se essere reintegrato nel posto di lavoro oppure ricevere un’indennità di 15 mensilità, più in ogni caso il risarcimento del danno, che non deve essere inferiore alle 5 mensilità, più il versamento dei contributi previdenziali.

In via del tutto eccezionale, inoltre, è prevista la possibilità di ricorrere ad una tutela reintegratoria c.d. “attenuata”, quando sussistono due condizioni: deve essere stata “direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore” e il licenziamento deve essere stato intimato:

  •  Per giusta causa (inadempimento gravissimo del lavoratore);
  •  Per giustificato motivo soggettivo (inadempimento notevole).

Anche in questo caso il lavoratore può scegliere la reintegrazione oppure le 15 mensilità, più un’indennità risarcitoria ma non superiore a 12 mensilità, più i contributi.

Per quanto riguarda invece la tutela indennitaria, questa si divide in base alle dimensioni del datore. Il licenziamento intimato:

  •  In mancanza di giusta causa;
  •  In mancanza di giustificato motivo;

porta comunque all’estinzione del rapporto di lavoro e se il datore ha più di 15 dipendenti (5 nell’ambito agricolo) vige la tutela indennitaria c.d. “forte”: 2 mensilità per anno di servizio, in un minimo di 4 e un massimo di 24. Se invece il datore è di piccole dimensioni, vige la tutela indennitaria c.d. “forte dimezzata”, per cui l’indennità è la metà di quella precedente, in un massimo di 6 mensilità.

Vi è infine la tutela indennitaria c.d. “dimidiata”: una mensilità per anno di servizio, in un minimo di 2 e un massimo di 12. Si applica ai datori di grandi dimensioni per il caso di licenziamento:

  •  Con vizio di motivazione;
  •  Con vizio di procedura.

Se il datore è di piccole dimensioni, invece, in questi casi si applica una tutela indennitaria c.d. “dimidiata dimezzata”, che ammonta alla metà della precedente, e non è mai superiore a 6 mensilità.

Da questo quadro variegato, in cui la reintegra è concessa in soli due casi, mentre l’indennità è articolata su quattro ipotesi, emerge come si sia voluto rafforzare il potere datoriale a scapito delle tutele previste per il lavoratore, il quale si ritrova senza lavoro anche in casi in cui il licenziamento era effettivamente illegittimo.

Si può quindi concludere da un lato che non esiste assolutamente un nuovo tipo contrattuale, poiché viene modificata solamente la tutela per i lavoratori licenziati, dall’altro che ciò che cresce non sono certamente le tutele del lavoratore, ma piuttosto la libertà del datore nell’organizzazione dell’impresa, elemento di per sé positivo, che però non avrebbe dovuto portare alla riduzione delle prime. Si potrebbe dire che il nuovo sistema è costruito come una “scala” di tutele: se queste salgano o scendano, dipende dall’interpretazione che diamo alla legge.

Alice M. Garavaglia

Bibliografia

Carinci, M.T. e Tursi, A. (2015), Jobs Act – il contratto a tutele crescenti, Torino, Giappichelli.

Sitografia

Legge 10 Dicembre 2014, n.183 “Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2014/12/15/14G00196/sg

Decreto Legislativo 4 Marzo 2015, n.23 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/3/6/15G00037/sg

Legge 28 Giugno 2012, n. 92 “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2012/07/03/012G0115/sg

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