Il paradosso degli aiuti internazionali: quando dare troppo non aiuta

Autore: Lance Cpl. Andreas A. Plaza via Wikimedia Commons

Autori: Lance Cpl. Andreas A. Plaza via Wikimedia Commons

Nel 2014, i soli membri dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico hanno stanziato 136mila milioni di dollari[1] in aiuti finanziari da destinare a programmi di sviluppo economico nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Tuttavia, nello stesso periodo, sebbene sia diminuita la percentuale di coloro che vivono in una condizione di indigenza, la povertà estrema, convenzionalmente fissata dalla Banca Mondiale sotto la soglia di $1,25 al giorno, affligge ancora più del 10% della popolazione mondiale. Molti degli obiettivi che ci si era preposti di raggiungere attraverso lo stanziamento di tali risorse finanziarie, compresi in parte nei Millennium Development Goals delle Nazioni Unite, non sono stati realizzati nei tempi indicati, dimostrando come non sempre una maggiore quantità di fondi abbia comportato o comporti un miglioramento nella qualità della vita delle popolazioni target. Secondo il premio Nobel per l’economica del 2015, Angus Deaton, una serie di ragioni starebbero alla base della scarsa incidenza dei flussi finanziari esteri sui processi di sviluppo, causando, in taluni casi, addirittura un peggioramento del contesto socio-economico locale.

Uno dei primi problemi dell’assistenza finanziaria è che questa, se non vengono rispettate talune condizioni, può (potenzialmente) alimentare apparati altamente corrotti, non beneficiare gli strati più bassi della popolazione ed, oltretutto, incentivare un meccanismo statale costruito sul nepotismo, il clientelismo e l’apatia. Gli aiuti economici possono infatti rappresentare una rendita sicura, attraverso la quale le élite possono letteralmente comprare supporto e mantenere il potere. D’altro canto, questo può far sì che vi sia poco interesse nel coinvolgere la popolazione nella struttura statale, la quale diviene, così, un mero strumento di facciata per incanalare gli aiuti stessi. Secondo alcuni teorici, quali l’economista africana Dambisa Moyo, sono proprio gli aiuti internazionali che permettono o hanno permesso a molti dittatori africani (saliti al potere all’indomani del processo di decolonizzazione) di mantenere una rete clientelare di supporto per lunghi periodi. A sostegno di tale posizione, secondo la stessa, vi sarebbe il fatto che, con la fine della guerra fredda, gli USA e l’URSS persero interesse nel mantenere alcuni dei propri “vassalli”, diminuendo di conseguenza il volume degli aiuti finanziari ad essi destinati e provocando un collasso della struttura di supporto politico che questi avevano costruito in parte elargendo il denaro degli aiuti. La caduta di molti regimi nell’Africa degli anni ’90 (quale, ad esempio, quello del somalo Siad Barre nel 1991) sarebbe quindi la dimostrazione di come, apparentemente, lo stanziamento di risorse finanziare da parte dei paesi più ricchi avesse seguito direttive politiche piuttosto che umanitarie.

Altro problema degli aiuti finanziari è la rendita sicura che questi possono rappresentare e lo scarso interesse che ne deriverebbe nel cercare fonti alternative di guadagno. E’ qui che il motto “no taxation without representation” può divenire “no representation without taxation”: gli stati con profitti esterni consistenti (quali, ad esempio, quelli derivanti dalla vendita di petrolio o da ingenti entrate provenienti da finanziamenti esterni) hanno poco interesse nell’istituire un apparato che permetta la raccolta di tasse e tributi su larga scala. Ciò, di conseguenza, produce  un’attenuazione del senso di responsabilità da parte delle autorità nei confronti dei propri cittadini, non dipendendo finanziariamente dagli stessi. Tale fenomeno è stato osservato, a partire dagli anni ’70, in quegli stati ricchi di risorse naturali dove le disuguaglianze tra le varie classi sociali tendono ad essere più marcate e dove queste sono spesso accompagnate dalla mancanza di istituzioni democratiche[2].

Infine, i flussi finanziari, anche quando vengono utilizzati secondo le intenzioni ufficiali del donatore, cioè promuovere lo sviluppo socio-economico, possono avere effetti negativi sull’economia locale. Pensiamo ad una campagna per la donazione di reti antizanzare in un’area dove l’incidenza della malaria è alta. La fornitura gratuita di tali materiali, sebbene possa avere effetti positivi nella riduzione della diffusione di nuovi casi, può avere conseguenze assai negative sui produttori locali di zanzariere, soffocando così la piccola e media imprenditoria. Tutto ciò ha ripercussioni sul mercato interno, considerata l’impossibilità per tali produttori di competere con quelli esteri.

Sebbene non sembra vi possa essere una risposta univoca, quali potrebbero essere le potenziali soluzioni all’apparente mancanza di efficacia degli aiuti finanziari facendo sì che questi riescano a raggiungere i risultati per i quali sono stati stanziati? Secondo gli esponenti di diversi correnti teoriche, tra i quali il già citato premio Nobel Deaton, uno dei prerequisiti dovrebbe essere la presenza di istituzioni politiche solide che possano incentivare gli investimenti esteri, potendo, così, diminuire gradualmente la propria dipendenza dagli aiuti finanziari. Esempio brillante è fornito dal Botswana che ha visto, negli ultimi anni, crescere il proprio PIL e diminuire la dipendenza dagli aiuti grazie alla stabilità politica. Inoltre, gran parte di questi fondi umanitari dovrebbero essere indirizzati direttamente alle popolazioni, senza passare attraverso macchine statali farraginose e corrotte. E’ questa la prospettiva spesso adottata da varie ONG, sebbene non sempre sia facile aggirare ostacoli burocratico-amministrativi. Infine, una menzione speciale spetta al microcredito che da vari economisti viene visto come la chiave di volta per ridurre sostanzialmente i livelli di povertà[3].

Per concludere, non bisogna considerare il supporto finanziario esterno solamente in termini negativi, ma una serie di condizioni iniziali andrebbero osservate per aumentarne l’impatto sul tessuto socio-economico. Quindi, se davvero si vuole promuovere lo sviluppo in un’ottica di lungo periodo, utilizzando le parole del filosofo africano Ki-Zerbo, potremmo dire:

L’unico aiuto che serve davvero è trovare una soluzione per eliminare quell’aiuto.

Michael Ruggeri12833425_10209102735192149_699792163_n

Studente in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale  presso l’Università La Sapienza di Roma

Informazioni, contatti e articoli dell’autore a questo link.

Bibliografia:

Carbone Giovanni, L’Africa. Gli stati, la politica, i conflitti, Il Mulino, 2007

Dambisa Moyo, La carità che uccide, Biblioteca Universale Rizzoli, 2011

Deaton Angus, La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianza, Il Mulino, 2015

Sitografia:

http://www.theage.com.au/it-pro/does-foreign-aid-do-more-harm-than-good-20110318-1c0a1.html (Ultima visita: 21/03/2016)

http://aiddata.org/ (Ultima visita: 21/03/2016)

http://www.wsj.com/articles/SB123758895999200083 (Ultima visita: 21/03/2016)

[1] https://public.tableau.com/views/AidAtAGlance/DACmembers?:embed=y&:display_count=no?&:showVizHome=no#1 (ultima visita: 26/04/2016)

[2] Rilevante, in questo senso, è il contributo di Mahdavi, il quale introdusse anche la teoria dello stato “rentier” (redditiere), termine usato per indicare quei paesi che, potendo contare su risorse naturali dalle quali derivare ingenti profitti, erano caratterizzati dalla presenza di regimi autoritari, proprio in virtù del fatto che non avevano bisogno di istituire un sistema di tassazione su larga scala.

[3] In parole povere, esso prevede la concessione di piccoli prestiti a gruppi di persone che, date le proprie condizioni finanziarie, si vedono spesso negati gli stessi dai grandi istituti bancari. Il tasso di interesse è basso e ripartito tra i vari membri del gruppo. Se il debito non viene saldato, verrà preclusa al gruppo ogni altra possibilità di avere accesso a sistemi di supporto economico. Il meccanismo “collettivo” qui illustrato fa sì che sia nell’interesse di tutti i membri che ognuno ponga la sua parte. Se, accidentalmente, uno dei componenti è impossibilitato a restituire la propria quota, sarà nell’interesse dell’intero gruppo sopperire a tale mancanza, evitando così di essere etichettato come “cattivo pagatore”. In poche parole, si condivide il rischio finanziario e ciò rappresenta un meccanismo di garanzia anche per il prestatore.

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