Sting e i Kayapò: politiche identitarie in Amazzonia

 

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Immagine realizzata da Matteo Vitali

Nel 1988, un breve articolo pubblicato su People Magazine titolava: «nel giro di tre giorni Sting si trasforma in un nativo – davvero nativo – per incontrare un Capo Indiano amazzonico». Il servizio si riferisce a una visita della celebre rock star presso un villaggio di Indiani Kayapò nella foresta amazzonica centrale, durante una pausa dalla tournée brasiliana dei Police. Il modo in cui avvenne la trasformazione lo spiegano le stesse parole di Sting: «Non ci è voluto molto per scrollarci di dosso la vernice della civilizzazione. Già a 48 ore dal nostro arrivo eravamo nudi, dipinti e combattevamo coi serpenti».

Le fotografie che accompagnano l’intervista attestano la trasformazione della rock star nella sua esperienza transculturale, con grande attenzione alle modificazioni corporali. In una foto il suo petto nudo è disegnato con simboli Kayapò, in un’altra viene enfatizzato il disco labiale del capo Raoni, con la didascalia che riporta (erroneamente1): «i Capi Kayapò portano i dischi labiali per intimorire i loro nemici». Alla domanda su quale fosse stato il momento culminante della sua esperienza, il cantante inglese risponde «senza dubbio l’incontro con Tacuma», riferendosi ad uno sciamano «che si stava riprendendo dopo essere stato colpito da un fulmine», «parlare con lui è stato come tornare indietro nel tempo di 4.000 anni».

Queste dichiarazioni apparentemente non hanno nulla di eccezionale, anzi, probabilmente echeggiano in modo familiare infinite altre impressioni che ci hanno riferito amici o parenti di ritorno dall’Egitto, Marocco, Zanzibar, Bali o comunque dall’Oriente: “è stato come fare un tuffo nel passato”, “vivono ancora come 100 anni fa vivevamo noi”, “senza tecnologia, lontani dalla modernità, sono poveri ma sicuramente più felici”.

Quelli che a prima vista sono giudizi innocui che sentiamo pronunciare così di frequente hanno le loro radici in alcuni tra i più potenti stereotipi che l’Occidente ha elaborato nel corso dei suoi contatti con popolazioni altre.

Queste tradizioni di pensiero prendono il nome di “primitivismo” (o “primordialismo”) ed “esotismo”, e sono tuttora largamente utilizzate (soprattutto in ambito mediatico) per interpretare la diversità culturale ed i cambiamenti politici e sociali in zone del globo delle quali generalmente ci si interessa poco. Con primitivismo si intende la diffusa tendenza a celebrare le società non occidentali perché non corrotte dall’influenza nociva della modernità e più vicine ad una presunta integrità culturale primigenia; l’esotismo è il versante estetico dello stesso preconcetto, cioè l’enfasi verso le manifestazioni esteriori di diversità culturale interpretate come segni di purezza e attaccamento alla tradizione (cfr. Conklin, 1997). Le implicazioni politiche di queste metanarrative sono state affrontate da molti antropologi e critici tra i quali Johannes Fabian, Arjun Appadurai ed Edward Said. Per Fabian, autore di Il tempo e gli altri (1983), la tendenza ad ordinare lungo un asse temporale le diverse culture spazialmente distanti risponde ad un’ideologia implicita molto precisa.

Gli antropologi di epoca vittoriana hanno spesso utilizzato la categoria del tempo per creare distanza tra la loro cultura e quella delle società che studiavano, per costruire scientificamente una scala evolutiva sociale che vedesse loro stessi al vertice. In questo modo le relazioni di potere, di dominio e di egemonia tra la civiltà occidentale ed un vago “Oriente” (non strettamente geografico) ottennero una giustificazione sul piano teorico astratto, nel quale la cultura europea poté rafforzarsi definendo la propria identità in termini oppositivi e paternalistici rispetto alle società esotiche e primitive che andava via via “scoprendo” (cfr. Said, 1978). Dipinte come insiemi omogenei, statici e congelati nel tempo, a queste società veniva espressamente negata la coevità con i loro colonizzatori (cfr. Fabian, 1983).

Questa interpretazione ha predisposto a ridurre continuamente le complesse dinamiche politiche e sociali di zone del globo lontane dai canoni occidentali a spiegazioni essenzialistiche e stereotipate. Un esempio ne è il genocidio ruandese del 1994, da molti autori e reporter descritto come “esplosione di odi tribali ancestrali”, “violenza etnica motivata da ragioni sepolte nella loro cultura, a noi incomprensibili” e bollato come “puro orrore irrazionale” (cfr. Eltringham, 2004). Tali spiegazioni primordialiste hanno a lungo e deliberatamente offuscato l’influenza dei processi globali (l’accelerazione del flusso di informazioni, immagini, tecnologie, merci e persone …), la responsabilità di precisi attori politici (in primis degli amministratori coloniali belgi2) e le loro scelte e interessi nell’ambito dell’esplosione della violenza etnica rivestendola di un carattere deterministico (cfr. Appadurai, 1996; Eltringham, 2004).

I referenti degli antropologi, o in termini meno accademici, i personaggi presenti nei “viaggi nel tempo” di Sting, sono collocati su un piano temporale radicalmente diverso rispetto a quello di chi ne produce la descrizione. Paradossalmente, nonostante le critiche postmoderne all’antropologia abbiano da tempo convinto gli accademici a sottoscrivere una concezione fluida delle identità culturali che evidenzia la loro dinamicità nell’adattarsi ai cambiamenti politici e sociali di larga scala (cfr. Clifford, Marcus, 1986), tra i soggetti postcoloniali è scoppiato un revival di nativismo. Perché i Kayapò, che già dai primi decenni del 1900 avevano abbandonato i loro costumi tradizionali (e la loro nudità) in seguito all’inizio delle relazioni con lo stato brasiliano (cfr. Turner, 1992:289), nell’incontro con Sting si sono presentati (e rappresentati) in copricapi di piume, pitture corporee e dischi labiali? Certamente questo recupero della tradizione risponde a dinamiche interne e ad un ritrovato orgoglio di essere nativi, ma B. Conklin fa notare in alcuni di questi sfoggi di tradizione l’appropriazione da parte degli indigeni amazzonici di un preciso codice estetico visuale occidentale che vuole l’immagine di un corpo esotico come simbolo di un’essenza culturale autentica (cfr. Conklin, 1997). 

Negli anni ’80 un’ondata di rinnovato interesse pubblico per l’ambiente e le minacce ecologiche alle foreste tropicali aveva catapultato numerose comunità aborigene brasiliane sui palcoscenici mondiali. Membri di queste comunità si trovarono sommersi da inviti a tenere discorsi in conferenze ecologiste, ad incontrare capi di stato e responsabili politici della World Bank, delle Nazioni Unite, del Congresso degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, nonché ad accompagnare rock star nelle loro tournèe. In questo modo, molti attivisti indigeni ebbero modo di percepire da vicino i sistemi di valori dell’Occidente e le sue tecnologie di rappresentazione. In un ironico scambio di ruoli, coloro che erano stati oggetto di ricerca antropologica divennero attenti osservatori dei costumi di pensiero occidentali e questa esperienza aprì loro nuove prospettive su come dare voce ai loro interessi (Ibidem).

Mentre in precedenza avevano dovuto nascondere i segni esterni della loro identità indigena, coprendoli con vestiti occidentali, ora ritornavano a proclamare orgogliosamente i loro tratti distintivi, con copricapi, corpi dipinti, perline e piume. Questo revival di nativismo era alimentato dalle aspettative occidentali: allo stesso modo in cui molti attivisti nativi avevano imparato che per attrarre l’attenzione degli influenti governi stranieri era necessario riformulare i loro sistemi cosmologici ed ecologici in termini di “rispetto per la Madre Terra”, “modi di vita a stretto contatto con la natura” e “protezione della biodiversità”, altri indigeni impararono ad utilizzare i codici estetici occidentali per esercitare una maggiore influenza politica (Ibidem).

Immagini esotiche di corpi adornati da copricapi e pitture rituali erano chiaramente privilegiate dal pubblico occidentale in quanto indici di autenticità culturale. Riformulando la loro cultura in una forma “green” e accettabile dal pubblico occidentale, per esempio evitando di indossare elementi controversi come collane di zanne di giaguaro e braccialetti di denti di scimmia, nonostante fossero presenti nella tradizione di numerosi popoli indigeni amazzonici, i Kayapò come tanti altri seppero rappresentarsi con successo nell’arena internazionale e guadagnarsi il supporto di influenti donatari. Tuttavia questa rincorsa all’autenticità fu controproducente per altri gruppi indigeni. I Warì (Pakaa Nova) del Brasile occidentale (Rondonia) prima di entrare in contatto con lo stato brasiliano (contatto avvenuto tra gli anni ’50 e ’60) erano soliti non indossare alcun indumento, ora indossano vestiti occidentali per ogni occasione, compresi i rituali. Sempre Conklin osserva che molti altri aspetti della vita dei Warì sono cambiati in seguito al contatto, ma la coesione sociale e l’integrità culturale si sono in qualche modo conservate. Il linguaggio nativo sopravvive nei focolari domestici e i matrimoni con esterni non sono frequenti. I visitatori nei villaggi Warì sono però frequentemente delusi dal fatto che non sembrino veri indiani (cfr. Conklin,  1997). Nel loro caso, gli ideali di autodeterminazione non hanno sposato le retoriche visuali di esotismo e autenticità, bensì le hanno strategicamente minimizzate per poter preservare un certo grado di autonomia. Per altri gruppi indigeni non è stato così facile: durante una protesta dei Pataxò, uno dei gruppi che non assomigliano allo “stereotipo indiano”, Mario Juruna, un parlamentare Xavante e attivista per i diritti indigeni, riportò ai media presenti che i Pataxò non erano veri indiani poiché “gli indiani non portano né barba né baffi, e neppure hanno peli sul corpo” [Ivi, p. 727].

Dalla parte dei nativi, in mancanza di una solida rappresentanza politica e in molti casi di significativa influenza economica, il “capitale simbolico” (cfr. Bourdieu, 1972) dell’identità culturale divenne una delle maggiori risorse a disposizione. Ironicamente, il valore simbolico delle identità indigene era quindi venuto a combaciare con gli stereotipi definiti primariamente dai non indigeni. Spinti ad incorporare un’autenticità convincente per il pubblico internazionale, gli attivisti nativi erano stati forzati ad agire in modo inautentico e dare una veste rigida e semplificata alle loro identità culturali.

Fosco Bugoni

Info

 

 

 

1 “Erroneamente” poiché, come nota Seeger, nel caso specifico dei Kayapò e dei loro vicini Suya, l’usanza di portare dischi ornamentali nelle labbra o nei lobi delle orecchie era associata all’importanza simbolica delle facoltà oratorie e dell’ascoltare (cfr. Seeger 1975)

2 Con il censimento del 1931-32, gli amministratori coloniali dell’allora regno del Ruanda-Urundi avevano dato veste ufficiale alle denominazioni etniche di Hutu e Tutsi. Basandosi sulla teoria allora in voga della “Ipotesi Camitica”, secondo la quale tutti i veri segni di civilizzazione riscontrati nell’Africa “nera” (definita anche “Bantu”) erano da attribuire a popolazioni caucasoidi di stirpe etiope, per natura superiori rispetto alle altre, i belgi privilegiarono l’etnia Tutsi (poiché erano gli attuali sovrani del regno ruandese) garantendo unicamente a loro l’accesso all’istruzione superiore e alle cariche amministrative dello stato coloniale. In questo modo, gli amministratori coloniali istituirono in Ruanda un’egemonia politica basata esclusivamente su un’interpretazione razziale della società, che negli anni successivi sarebbe stata appropriata dalla massa di “inferiori” Hutu per giustificare la cacciata degli “invasori stranieri” Tutsi e far precipitare lo stato in una spirale di conflitti etnici, dei quali il genocidio dell’Aprile 1994 fu l’esempio più estremo (cfr. Des Forges 1999; Eltringham 2004; Taylor 2002)

 

Bibliografia

Appadurai, A., Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 1996

Bourdieu, P., Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina, 1972

Clifford, J., Marcus, G., Scrivere le culture. Roma: Meltemi, 2005

Conklin, B. A., “Body Paint, Feathers, and VCRs: Aesthetics and Authenticity in Amazonian Activism”. In American Ethnologist, 24(4), 1997

Des Forges, A., Leave None to Tell the Story: Genocide in Rwanda. Human Rights Watch and the International Federation of Human Rights Leagues, New York, 1999

Eltringham, N., Accounting for horror: post-genocide debates in Rwanda, Pluto Press, 2004

Fabian, J., Time and the other, New York: Columbia University Press, 1983

Said, E., Orientalismo, Torino: Bollati Boringhieri, 1978

Seeger, A., “The Meaning of Body Ornaments: A Suya Example”. In Ethnology, 14(3), 1975

Taylor, C., “The Cultural Face of Terror in the Rwandan Genocide”. In Annihilating Difference: the Anthropology of Genocide, edited by Alexander L. Hinton, pp.137-178. Berkeley: University of California Press, 2002

Turner, T., “Defiant images: the Kayapò appropriation of Video”. In Anthropology Today 8(6), 1992

Sitografia

“On a Three-Day Tour Break, Sting Goes Native—Very Native—to Meet a Chief Amazon Indian”, People Magazine, vol. 29, no. 12, March 28, 1988. Accessibile a http://www.people.com/people/archive/article/0,,20098590,00.html.

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