A volte ci capita di parlare da soli o di osservare altre persone farlo, ad esempio un amico, un parente o anche un estraneo per strada che gesticola e pronuncia frasi per noi senza senso. In base alle situazioni, questo tipo di comportamento può sembrarci più o meno “strano”, ma non sempre è facile capire quando è il caso di preoccuparci ed intervenire, soprattutto se riguarda persone a noi vicine o noi stessi in prima persona. Quando tale comportamento è da considerarsi sintomo di una vera e propria patologia? E quando, invece, ha uno scopo del tutto salutare?
Parlottare tra sé e sé non è un’azione necessariamente legata ad un disturbo mentale, ma può essere utile per la riuscita ottimale di un determinato compito. Per una migliore memorizzazione, ad esempio, risulta utile ripetere verbalmente o bisbigliare ciò che si sta cercando di fissare in memoria, che sia una sequenza numerica o una serie di passaggi di un certo procedimento, la cui rievocazione verbale ci aiuta a seguirne linearmente l’ordine. Questi processi di ripetizione sub-vocalica permettono di mantenere viva la traccia mnestica attraverso un ripasso dell’informazione, che impedisce la decomposizione di tali informazioni (cfr. Baddeley, 1986) e garantisce maggior concentrazione sul compito da eseguire.
La dottoressa Vinciguerra spiega come parlare a se stessi, in assenza di disturbi di salute mentale, sia del tutto normale poiché aiuta ad avere maggior controllo e consapevolezza delle proprie azioni e dei propri sentimenti. Tuttavia, chi lo fa troppo spesso, mostra un livello di ansia molto elevato, che trova sfogo proprio nel parlare con sé ad alta voce e con eccessiva frequenza, per bisogno di controllare questo stato fisico e mentale. La Vinciguerra spiega che “la tensione e lo stress creano nelle persone una percezione di instabilità e di insicurezza. E se parlare da soli non è una cosa negativa, chi lo fa spesso dovrebbe capire che probabilmente i suoi livelli di ansia e stress sono molto elevati.”
Chi parla con se stesso ricorre ad un pensiero autoriflessivo che permette di ragionare meglio su un’azione prima di compierla. Nel 2010 il dottor Michael Inzlicht ha diretto uno studio che mostra la relazione tra il dialogo con se stessi e l’abilità di controllare un comportamento impulsivo. I 37 soggetti sono stati sottoposti a compiti di valutazione d’impulsività di risposta (press/don’t press the button). Alla metà di essi è stata data la possibilità di parlare con se stessi del compito prima di dare una risposta, mentre, alla restante parte è stato detto di pronunciare solamente la parola “computer”, in modo che non si innescasse un dialogo interno riguardante il compito. I risultati hanno mostrato che i soggetti che potevano parlare con se stessi sono stati maggiormente in grado di controllare i propri impulsi rispetto al secondo gruppo. Il dottor Inzlicht ha spiegato che la possibilità di riflettere ad alta voce ha reso possibile una connessione tra “self-talk” e “self-controll”, che ha permesso di aiutare i soggetti nei processi decisionali e quindi di evitare l’uso di risposte impulsive.
Il “self-talk”, oltre ad una funzione di autocontrollo in generale, è molto utilizzato in ambito sportivo per far sì che gli atleti, parlando a se stessi prima, durante e al termine di una prestazione, si focalizzino su pensieri positivi e sull’obiettivo da raggiungere. Uno dei pilastri della psicologia cognitivo-comportamentale, infatti, postula che ciò che le persone si dicono (e quindi pensano) è in grado di condizionare il successivo modo di comportarsi. Ripetersi parole chiave o frasi stimolanti aiuta ad oscurare paure e debolezze, a favore di pensieri positivi e rinforzanti. I risultati di tale tecnica sono stati ottimali, tanto da essere frequentemente inserita nei training di preparazione psicologica degli atleti (cfr. Francesconi, 2015).
“Il fenomeno del parlare da soli di per sé è diffuso e non patologico”, spiega la dottoressa Flavia Massaro, però “può diventare preoccupante in tre situazioni”: quando il fenomeno si presenta con eccessiva frequenza, quando si parla con un amico immaginario superata l’infanzia e quando si sentono delle risposte a ciò che si dice a voce alta. La solitudine potrebbe spiegare il perché una persona tende a parlare con se stessa, ma quando avviene ogni giorno è necessario l’intervento di un professionista che la aiuti a comprendere cosa ostacola l’instaurarsi di relazioni sociali soddisfacenti.
C’è chi, poi, si ritrova a parlare da solo perché sente delle voci. Avere un amico immaginario non ha nulla di patologico, fino a quando si parla di bambini: oltre l’infanzia è necessario analizzare cosa rappresenta per l’adulto questa figura, se è cioè una sorta di gioco o una figura persecutoria di cui il soggetto non riesce a liberarsi. In alcuni casi, si odono delle voci offensive e criticanti, oppure delle “voci grandiose” che per i soggetti provengono direttamente da Dio, o ancora “voci teleologiche” che indicano al soggetto degli obiettivi e degli scopi da raggiungere. In molti casi, questi sintomi sono direttamente legati al disturbo schizofrenico o sono tipici di chi abusa di alcolici o sostanze stupefacenti (cfr. Cantelmi, 2010). Esistono casi, inoltre, di persone che hanno come unico sintomo il sentire una voce nella loro testa che non interferisce negativamente con le vicende di tutti i giorni e a cui non è stato diagnosticato nessun altro problema che possa far pensare ad un disturbo psicopatologico. Spesso questi soggetti, proprio perché riescono comunque ad affrontare una vita normale, non ammettono di udire delle voci per paura di essere considerati “folli”.
Parlare con se stessi e a voce alta ha diverse funzioni positive: aiuta la persona a concentrarsi e a mantenere stabile l’attenzione su un determinato obiettivo, favorisce la memorizzazione e l’apprendimento, dà sicurezza e motivazione, permette di gestire meglio l’impulsività a favore di un maggior autocontrollo, supporta i processi decisionali e permette di riorganizzare pensieri e atteggiamenti. Non vanno però ignorati comportamenti che deviano dalla “normalità” ed è consigliabile, in questo caso, intervenire chiedendo aiuto ad un professionista, che valuterà la presenza di altri sintomi e la gravità di essi, se indicano cioè una sintomatologia transitoria e funzionale alle esigenze del paziente o segni più gravi riconducibili ad una psicosi.
Bibliografia
Cedro, V., (2014) “La Memoria di Lavoro: un sistema on-line”. In Metaintelligenze.
Nauert, R., (2016) “Self-Talk Helps Self-Contro”l. In Psych Central.
Sitografia
Adnkronos, (2014) Salute: sempre piu’ italiani parlano da soli, spia di ansia e tensioni: http://www1.adnkronos.com/IGN/Daily_Life/Benessere/Salute-sempre-piu-italiani-parlano-da-soli-spia-di-ansia-e-tensioni_312581414198.html
Francesconi, C. ,(2015) La tecnica del SELF-TALK in ambito sportivo: http://www.chiarafrancesconi.it/letture/psicologia-dello-sport/33-self-talk-psicologia-dello-sport.html
Massaro, F.,(2014) Parlare da soli è normale?: http://www.serviziodipsicologia.it/parlare-da-soli-e-normale/