Internet e neo-razzismo differenzialista: social networks ed etnofobia

 

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Quante ore al giorno passiamo davanti al computer navigando il web allacciando relazioni sui social networks? Quante volte accendiamo la televisione e ascoltiamo i telegiornali o le notizie che ci vengono date? Nell’anno 2014, secondo i dati ISTAT, gli italiani che usano internet ogni giorno sono circa 20.916.247 il 36% della popolazione, mentre nel 2013 il 91.1% degli intervistati guarda la tv abitualmente. La nostra è una nazione virtualmente collegata ma nonostante ci siano degli aspetti positivi collegati a questa sociabilità, internet e i social networks possono e/o rischiano di creare e fomentare il razzismo, un aspetto del virtuale che molto spesso si riflette in modo più violento nella realtà come, ad esempio, auspicare la morte dei migranti nel mediterraneo ed esserne sollevati una volta avvenuta.

L’uso continuo di internet e dei social networks dà la possibilità a chiunque e in qualunque momento di esprimere una sua opinione.

Si potrebbe discutere sul fatto che questa è democrazia, che questa è libertà di pensiero ma il problema è molto più profondo: la manipolazione delle notizie, la non conoscenza dell’altro e i pregiudizi a monte implicano, molto spesso, l’attuarsi di alcuni atteggiamenti di stampo razzista. È bene notare che queste problematiche non sono dovute direttamente alla nascita dei social networks, ma all’uso che la stampa e i mass media ne possono fare.

Ma cosa significa essere razzisti?

Partiamo in prima battuta dal termine razza il quale ha un’origine più che centenaria: il primo a parlarne è stato il biologo Linneo che, nel 1735, decise di classificare per la prima volta nella storia dell’umanità la specie umana secondo caratteristiche fisiche e caratteri morfologici. Nel 1758, lo stesso biologo diede una classificazione dell’uomo divisa in sei razze: 1) americana, 2) europea, 3) asiatica, 4) africana, 5) selvaggia, 6) mostruosa (cfr. Marta, 2005), dove per selvaggia intendeva gli indigeni scoperti durante le colonizzazioni (ovvero coloro che non erano civili quanto gli europei esploratori), e per mostruosa individui disabili o malati mentali*. Successivamente, colui che ha avuto maggior “successo” nelle dottrine razziste, è stato sicuramente De Gobineau (1816-1882), il primo grande ispiratore della politica hitleriana. Nel 1856, ha pubblicato il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane dove sosteneva: 1) che la differenza tra culture o civiltà umane deve essere naturalizzata**, 2) che la razza bianca è all’apice della gerarchia delle razze, e  3) la repulsione per la mescolanza tra razze o mixofobia (cfr. Dei, 2012).

Con il passare degli anni il concetto di razza si è evoluto e si è trasformato.

Se nel ventunesimo secolo la differenza umana (razzismo biologico) in termini fisici ha scaturito, ad esempio, l’olocausto, il porrajmos*** e la segregazione degli afro-americani negli Stati Uniti, oggi non si parla più di differenze biologiche ma di differenze culturali, portando forse ad un più pericoloso neo-razzismo differenzialista. Nonostante ci sia l’affermazione dell’uguaglianza degli esseri umani e l’accettazione delle differenze nei tratti fisici, somatici e culturali, si sente «il bisogno di preservare l’integrità e l’autenticità della propria identità di fronte al rischio dell’omologazione che investe il mondo contemporaneo» [Dei, 2012:38] dovuto alla globalizzazione.

Lévi-Strauss, ha sempre sostenuto l’idea che lo sviluppo e il progresso possono essere dati esclusivamente da una pluralità culturale senza la quale non sarebbe stato possibile arrivare a dove siamo oggi (cfr. Dei, 2012). Mantenere e preservare la propria cultura non vuol dire in alcuna maniera che i movimenti migratori siano un pericolo per l’integrità dell’identità locale; nonostante si viva in un mondo globalizzato e ricco di un continuo flusso di persone, finanza e politica non è possibile assistere ad un’omogeneizzazione (culturale) forzata. La cultura, costantemente in continua trasformazione, è malleabile, si trasforma (Ibidem) e se cinquanta anni fa era ad esempio impensabile per le donne cristiane entrare in chiesa senza indossare il fazzoletto che copriva i capelli, oggi gli è consentito sfoggiare vestiti di alta moda e abiti da sposa scollati fino al coccige. Questo vale anche per l’accettazione di altre culture, non che vengano inglobate da altre ma piuttosto in grado di convivere, crescere insieme e capirsi l’un l’altra.

Questo mondo globalizzato offre una «pluralità delle fonti di informazione capaci di alimentare, confermare o modificare pregiudizi razziali» [Wieviorka, 2000]. Quando si ascolta una notizia al telegiornale o la si legge su internet la percezione di come questa viene appresa da parte dell’ascoltatore o del lettore riflette le sue emozioni, i suoi affetti, le sue esperienze e anche, in una seconda fase, l’analisi, le argomentazioni e i dati basati sui fatti accaduti (cfr. Wieviorka, 2000). È ovvio che una testata giornalistica non mira soltanto a dare la notizia, ma anche vendere il suo giornale nel quale è presente la parte relativa allo scoop.

Da diversi anni, in Italia, si avverte il “problema” immigrati/immigrazione (per approfondire). Fino a metà anni novanta il popolo italiano era abituato a vivere nel suo Bel Paese dove di problemi ce ne erano già abbastanza: le brigate rosse, lo scandalo mani pulite, la mafia che uccideva magistrati, ma erano problemi, come dire, inter nos. Nel momento in cui sono arrivati i primi migranti dall’area della ex Jugoslavia l’attenzione mediatica si è catapultata su loro: negli anni 90 le immagini dei barconi che tentavano di attraversare l’adriatico e toccare terra a Bari erano diventate una presenza fissa. Subito dopo la caduta delle torri gemelle a New York e la “guerra al terrorismo” avviata da Bush, il nemico principale non era più l’albanese che oramai era “quasi” integrato sia economicamente che socialmente, ma il musulmano integralista praticante. Recentemente l’attenzione si è spostata sui Rom (per approfondire), “gli zingari ladri di oro e case”. La linguistica e i pregiudizi nei confronti dei musulmani e dei Rom si sono talmente radicate nei mass media che anche chiamare un ragazzo/uomo con una folta barba “talebano” è diventato di uso comune. Non solo, la “zingarofobia” e la paura del viaggiante sono state talmente fomentate dai mass media che oggi si può assistere sovente a scene di paura (spesso imitativa o senza alcun motivo) da parte di qualcuno: ad esempio quando, nella metro o da qualsiasi altra parte, una bambina dalle lunghe trecce ebano ci chiede cinquanta centesimi.

Se l’”idea social media” da un lato cerca di promuovere l’integrazione e la condivisione, dall’altro alcuni membri dell’estrema destra, che usano questi mezzi informatici, cercano di accattivarsi il favore della popolazione dando un’immagine dell’immigrato come delinquente, ladro di lavoro e terrorista (cfr. Wieviorka, 2000). Alcuni di loro falsificano immagini, modificano informazioni o semplicemente “sistemano” la notizia a proprio favore.

In conclusione, «l’impatto diretto dei media in materia di razzismo è tantomeno omogeneo e unilaterale, quanto meno le influenze che si esercitano a monte sono anch’esse uniformi, e quanto più grande è la molteplicità di interessi e di punti di vista individuali e collettivi, politici e privati che pesa sull’informazione mediatica» [Wieviorka, 2000]. Nel leggere o ricevere una notizia è sempre necessario non reagirne in maniera diretta ed emozionale, ma è sempre importante analizzare, studiare, capire e solo infine giudicare. Non a caso, in un articolo del 31 Maggio 2016, scritto da Elena Bondesan, si legge che Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft insieme alla Commessione Europea si sono autoproclamati paladini della lotta al razzismo affermando che faranno di tutto per cercare di arginare il fenomeno tanto virale quanto pericoloso (cfr. Bondesan, 2016).

 

Sarah Sciò

Info

 

 

 

* Si può notare la mancanza della “razza australiana” in quanto il continente, scoperto nel 1606, era ancora poco conosciuto.

** Il concetto di natura in antropologia ha una storia centenaria. Il problema nel definire ciò che è naturale e ciò che, invece, è culturale è stato sempre un argomento affascinante da studiare. Da Taylor a Levi-Strauss si è sempre cercato di capire ed affermare che la cultura non è innata, ma acquisita attraverso le istituzioni: famiglia, scuola, religione… Per naturalizzazione De Gobineau intendeva la volontà di mantenere pure e pulite le razze umane, soprattutto quella bianca, evitando la mescolanza che avrebbe causato forti problemi fisici, etici e morali. La bellezza fisica era un aspetto fondamentale.

*** Quello che i travelers (viaggianti/zingari) definiscono come il loro genocidio durante la seconda guerra mondiale. Tra il 1939 e il 1945 vennero uccisi, a causa del gene “malato” del viaggiante, 500.000 gipsy.

 

Bibliografia

Dei, F., Antropologia Culturale, Bologna, Edizioni Il Mulino, 2012

ISTAT., Annuario Statistico Italiano – Cultura e tempo libero., 2014

ISTAT & FUB, F., Internet@Italia 2014 – L’uso di internet da parte di cittadini e imprese, 2015

Marta, C., Relazioni Interetniche: prospettive antropologiche, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2005

Wieviorka, M., Il razzismo, Roma-Bari, Laterza, 2000

Sitografia

Boundesan, E. (31 Maggio 2016), EU NEWS : http://www.eunews.it/2016/05/31/facebook-twitter-youtube-e-commissione-uniti-contro-il-razzismo-online/60094

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