Novembre 2015, Londra. Un giovane omosessuale insegnante di teatro, Michael Neri, riceve questo messaggio: “Ho deciso che i miei figli non frequenteranno più le tue lezioni. Sono venuta recentemente a conoscenza del tuo stile di vita e, in quanto cristiana, non posso permettere che i miei figli vengano influenzati da idee non convenzionali”.
A qualche giorno di distanza, nell’Istituto superiore Mattei-Scarpa in provincia di Venezia, il professor Bianco si è presentato in classe con parrucca bionda, stivali e minigonna, aggiungendo: “Chiamatemi Cloe”. E a questo coraggioso gesto è seguita una reazione a dir poco infervorata da parte di un genitore, il quale ha scritto tempestivamente all’assessora per l’istruzione del Veneto Donazzan: tale “carnevalata”, a suo dire, sarebbe un’offesa per chi ci tiene all’educazione dei figli, e che lotta in nome dei saldi valori della famiglia. L’assessora si è prontamente schierata con il genitore, invocando urgenti chiarimenti e provvedimenti disciplinari e dichiarandosi “schifata”. Il direttore dell’Ufficio scolastico ha invece chiarito che “la professoressa non ha fatto nulla di irregolare o illegale”, e che a dover essere giudicate sono le competenze e le capacità degli insegnanti, e non l’abbigliamento.
È difficile non chiedersi perché ancora oggi l’omosessualità e la transessualità fanno paura. C’è ancora molta confusione al riguardo, e sono in molti a domandarsi se sia lecito considerare quest’ultima un disturbo. Partendo dal presupposto che qualsiasi definizione del DSM (“Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, il manuale diagnostico psichiatrico per eccellenza) non sia comunque insindacabile – fino al 1987 per il DSM l’omosessualità era ancora un disturbo – esso parla comunque chiaro: la transessualità non è una malattia. Il disturbo mentale subentrerebbe infatti solo se vi è un significativo disagio e malessere associato alla condizione (criterio in comune a molte altre condizioni psichiche, da considerarsi disturbi solo se arrecano malessere a sé o agli altri). A scanso di equivoci, il termine “disturbo” è stato dunque sostituito in “disforia”.
Il terrore che tali tematiche suscitano in parte della popolazione (genitori e non solo) potrebbe essere ricondotto alle modalità cognitive con cui ognuno di noi affronta la realtà. Secondo Tversky e Kanheman gli esseri umani, non disponendo di modalità di elaborazione dell’informazione raffinate e impeccabili come i computer (che si servono di algoritmi), ricorrono quotidianamente alle euristiche, “scorciatoie del pensiero” che consentono un risparmio energetico tenendo conto di meno dati in poco tempo. Alcune di esse sono:
- Euristica dell’ancoraggio: si tratta della tendenza umana del fare affidamento alle prime impressioni;
- Euristica della disponibilità: in virtù di essa stimiamo la probabilità di un evento sulla base dell’impatto emotivo di un ricordo o di un’informazione piuttosto che della frequenza oggettiva (il classico caso per cui riteniamo che prendere l’aereo sia più pericoloso di viaggiare in macchina o in treno);
- Euristica della rappresentatività: essa subentra nella nascita e nel mantenimento dello stereotipo e consiste nell’attribuire caratteristiche simili a oggetti simili, ignorando qualsiasi informazione che potrebbe smentire tale generalizzazione.
Lo stereotipo è quindi una modalità cognitiva che risponde a un bisogno insito nell’uomo: classificare la realtà ripartendola in categorie e attribuendovi delle caratteristiche per semplificarla e interpretarla risparmiando energie cognitive. Diventa quindi più difficile elaborare informazioni nuove, se queste si scontrano con quelle già sedimentate. In poche parole, un mantenimento dello status quo. Dalla tendenza umana a dicotomizzare la realtà potrebbe dunque derivare la difficoltà di venire a patti con delle dimensioni (l’omosessualità e la transessualità) che difficilmente possiamo racchiudere in una categoria definita e cristallizzata.
Altre possibili spiegazioni di tale ostilità potrebbero essere la nota teoria del capro espiatorio, secondo cui in ogni società la maggioranza ha bisogno di una minoranza debole contro cui dirigere la propria frustrazione e aggressività, o la meno conosciuta Terror Managment Theory.
Essa è stata elaborata da Pyszczynski (1991), il quale ritiene che alla base della vita degli esseri umani vi sia un profondo terrore della morte e che la cultura non sia altro che un sistema simbolico finalizzato a gestire tale sentimento riempiendo la vita di significati. A lenire tale paura della fine interverrebbero quindi i valori culturali, anche quelli non legati alla religione e alla speranza di una vita ultraterrena. Ad esempio, secondo gli autori, le ideologie nazionaliste o alcune prospettive sulla sessualità. Essi contribuirebbero inoltre alla stima di sé, anch’essa un’arma contro il terrore della morte.
Potremmo quindi annoverare, tra le ideologie dietro cui si cela il bisogno di accrescere l’autostima e di annientare il terrore della morte, quelle che assumono la superiorità di un orientamento sessuale rispetto a un altro, o l’inferiorità di una condizione come la transessualità. Secondo gli assunti di tale teoria, queste convinzioni culturali fornirebbero un’immortalità simbolica data dal sentirsi parte di qualcosa di grande (un’ideologia, una convinzione incrollabile) che sopravvivrà al singolo individuo.
Ritornando agli episodi di intolleranza che occupano le cronache di questi giorni: ma davvero la scuola si è ridotta così? Questa è la domanda che paradossalmente esplicita il genitore turbato da Cloe, ex professor Bianchi. Ed è proprio questo il punto. Secondo questo padre e chi si accoda al suo parere, episodi come questo denunciano una irrimediabile decadenza dei valori. Ciò che viene ignorato è che invece affermare la propria identità in completa libertà è il valore più genuino e di più alta ispirazione. E’ l’ambizione che dovrebbe stimolare la scuola nei suoi allievi. Il mostrarsi per chi ci si sente di essere veramente richiede il coraggio esemplare di scontrarsi inevitabilmente con la cieca incomprensione e lo sdegno di molti. Implica un lottare ogni giorno contro gli stereotipi e i pregiudizi, e soprattutto insegna a tutti noi il rispetto profondo per l’altro, per le sue battaglie quotidiane, per il suo dolore e la sua determinazione e infine la sua sofferta vittoria. Perché, come insegna il film di Ozon “Una nuova amica” (la cui protagonista è proprio una professore che si veste da donna), assumere quegli abiti è sicuramente per Cloe qualcosa di più di uno sfizio: è assomigliare di più a se stessa, smettere di mentire a sé o al mondo, di celarsi dietro la vergogna e la paura. È presentarsi al mondo, dopo anni di conflitti e tormento, in piena autenticità, aldilà dei diktat della società. E non certamente una “carnevalata”.
La Donazzan scrive, sdegnata: “stiamo parlando di una scuola, un luogo pubblico per eccellenza, dove i ragazzi vengono formati per diventare i cittadini di domani”. Ed è appunto la scuola a dover insegnare la tolleranza, l’apertura, la diversità come valore prezioso e irrinunciabile, la portata distruttiva del pregiudizio e della discriminazione. Lezioni più importanti di quelle che si leggono sui libri di storia, e senza le quali qualsiasi apprendimento non ha senso, profondità o potere trasformativo, ma risulta tristemente depauperato.
Marta Di Grado
Bibliografia
De Polo A. (2015), Professore in classe vestito da donna: “Sono entrato di ruolo, da oggi chiamatemi Cloe”, La Stampa.
Kanheman D. (2002), Heuristics and Biases: The Psychology of Intuitive Judgement, In Cambridge University Press.
Renda S. (2015), Sei gay, non puoi insegnare ai miei figli. Noi siamo cristiani, L’Huffington Post.
Solomon, S.; Greenberg, J.; Pyszczynski, T. (1991). A terror management theory of social behavior: The psychological functions of self-esteem and cultural worldviews. Advances in experimental social psychology.