Educare alla fragilità

 

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Viviamo nell’angoscia di una malattia imminente, ossessionati dall’idea di avere una salute perfetta, vediamo il nostro corpo come un assemblaggio di organi da riparare, per inseguire l’idea di “una vita sana, un corpo sano” (cfr.  Benasayang, 2008). La preoccupazione della salute ha invaso il nostro quotidiano, c’è una grande paura del dolore, di quel dolore che non si può spiegare, che non si può rappresentare. Scappiamo e cerchiamo con ogni mezzo di fuggire dalla malattia, cerchiamo di evitarla, per non dover fare i conti con il senso di solitudine e sconforto che può lasciare, per questo andiamo alla ricerca di un potente risolutore. Fiduciosi ci affidiamo alla medicina e al sistema sanitario, ma questa fiducia può avere effetti collaterali che possono sfociare in una medicalizzazione eccessiva.«Si potrebbe dire che al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere la morte» [Foucault, 2005].

Per Foucault la biopolitica (bìos vita e polis città) è il terreno in cui agiscono le pratiche con le quali la rete di potere gestisce le discipline del corpo e le regolazioni delle popolazioni. Se prima il potere si avvaleva soprattutto del diritto di morte, ora si occupa di garantire la vita, per avere un accesso più diretto e invasivo ai corpi mortali. Il controllo della condizione umana diviene così affare politico, il potere garantisce la vita. L’uomo con le sue paure, con le sue fragilità vuole eliminare ciò che può rendere deboli o malati. Con la crescita della società, con l’avanzare del progresso, la preoccupazione per la salute, l’ossessione per la vita sana, testimoniano i cambiamenti che questa epoca sta affrontando, questi cambiamenti sono il venire a galla del “biopotere”, questa forma di potere post-moderno che si esercita sulla vita e spiega il posto centrale attribuito alla medicina. Lo scenario davanti a noi ormai è talmente allargato che le soluzioni di cui dispone un individuo sono molteplici, le scelte prese in piena libertà rischiano di diventare caotiche e troppo influenzate; anche i mass media e la pubblicità in questo circolo vizioso hanno un loro ruolo, bisogna combattere subito qualsiasi segnale ci capita di avvertire, l’uomo deve essere un essere perfetto, nessun dubbio, nessuna incertezza.

La paura del corpo che si ammala lascia ad altri il compito di governarci, siamo davvero malati oppure stiamo diventando caricature del “malato”? Ogni sintomo va combattuto subito, un tempo si aspettava a somministrare determinati farmaci, c’erano le famose 24 ore per vedere se due linee di febbre erano la conseguenza di qualcos’altro, ora invece, siamo bombardati da medicinali: «Nei paesi sviluppati, dunque l’ossessione della salute perfetta è divenuta un fattore patogeno dominante. Ciascuno esige che il progresso ponga fine alla sofferenza del corpo, mantenga il più a lungo possibile la freschezza della gioventù e prolunghi la vita all’infinito. E’ il rifiuto alla vecchiaia, del dolore, della morte. Ma si dimentica che questo disgusto dell’arte di soffrire è la negazione stessa della condizione umana» [Illich, 1976]. Ivan Illich fu un critico acuto e radicale della civiltà industriale e delle istituzioni moderne, in molti suoi scritti contestava la medicina ufficiale e l’estensione del suo potere sulla società. Non solo la corporazione medica provoca la malattia, ma diventa una macchina per creare consumatori incapaci di avere consapevolezza e saper autogestire la propria salute: in questo modo il paziente o malato, aspetta in modo passivo la propria cura, si delega ad altri la responsabilità sulla sua persona, sulla sua salute.

In un circolo imperfetto, dove le nostre fragilità non guariscono, la nostra immagine diventa così distorta. Come umani ci si sente stanchi, stressati, sappiamo che la vita di tutti i giorni può essere faticosa, che non sempre siamo in grado di stare al passo con questa società in continua evoluzione, allora si tende a creare un nuovo status, lo “status del malato”. Ci lasciamo governare perché è più facile, sappiamo distinguere quello che ci danneggia da quello che invece ci fa bene, ma non prendiamo decisioni, preferiamo lasciarci condurre, convinti che tutto questo ci porti ad avere una vita buona: ma la vita buona che cerchiamo, è quella che è rappresentata da un corpo perfetto?

Come accennava già Illich nel libro “Nemesi medica”, le persone preferiscono credere nelle menzogne, nella falsità di una malattia fisica, che li esoneri da qualsiasi responsabilità sociale o politica, spesso l’uomo vuole di sua iniziativa credere nelle falsità, piuttosto che ammettere che molti disturbi sono frutto di scelte sbagliate, evitando così di prendere posizione e cambiare stile di vita, con il risultato che ogni malattia è una realtà creata socialmente.L’uomo ha molta strada da fare per riconoscere che il suo corpo si può “rompere”, che questo guasto meccanico fa parte del suo ciclo vitale, ma questa rottura non deve permettere una dominazione medica, così facendo si rischia di creare percentuali sempre più alte di “malati immaginari”, quando basterebbe fare più attenzione alle nostre ferite interiori. Il dialogo medico-malato resta fondamentale, è molto importante che in questa comunicazione nessuno dei due abbia il sopravvento, la comunicazione è la sola arma che rimane per stabilire una connessione, ascoltare, mettersi in gioco. Per questo dobbiamo diventare consapevoli che non basta educare alla salute, bisogna anche educare alla malattia. Abbiamo diritto ad avere paura, ma abbiamo anche il dovere di comprendere cosa realmente è “malattia”, e cosa è “timore”.

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Info

 

 

 

Bibliografia

Benasayang, M., (2008), La salute ad ogni costo, medicina e biopotere, Transizioni

Foucault, M., (2005), Nascita della biopolitica, corso al collège de France anni 1978-1979, a cura di François Ewald, Alessandra Fontana e Michel Senellart, traduzione di Mauro Bertani e Valeria Zini, Feltrinelli Milano.

Illich, I., (1976), Nemesi medica, Red Edizioni

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