Il Politichese: breve storia di come abbiamo affondato la nave

Trump

Immagine realizzata da Mike Licht.

Se prima il linguaggio politico tendeva all’eleganza ricercata, alla precisione del termine e alla resa anche formale, oggi si scivola verso il progressivo impoverimento, la semplificazione, la brutalizzazione.

Fare politica è un’arte, arte che si esercita prima di tutto nel sapersi guadagnare un consenso, perlomeno nelle zone del mondo democraticamente strutturate. Un principe machiavelliano non sarebbe posto dinanzi a tale problema, ma per tutti gli altri, che non hanno un principato da conquistare, questa è una questione piuttosto centrale. Il consenso in breve è frutto di una buona comunicazione, una resa efficace del packaging attorno alla questione politica, in quanto sarà valutata in larga misura per come si presenta. La comunicazione in generale si basa su aspetti non verbali o verbali, e questo è ancor più valido in ambito politico: immagini, slogan, volantini, apparizioni televisive, social network, foto-santino. Ora in tutto ciò ci si chiede a ragione che fine abbia fatto la vera anima di tutto il sistema, il linguaggio politico. Teorizzato, perfezionato, selezionato: è specchio della società, delle sue aspettative e con esse si modifica.

Se in tempi più remoti un intervento politico trovava giustificazione anche in una compostezza linguistica come simbolo di serietà e competenza, ad un certo momento si è ritenuto di doversi allontanare da un vocabolario erudito e elitario in favore dell’immediatezza. Veicolare il contenuto attraverso parole molto più colloquiali e familiari.

In epoca fascista grande attenzione venne concentrata nell’uso lessicale: le apparizioni, i discorsi e le dichiarazioni di Benito Mussolini erano studiate per accordarsi con l’idea di dinamismo, concretezza e vitalità che erano alla base della sua immagine. L’oratoria era pensata e rivolta alla massa, strutture sintattiche semplici, ripetizioni di binarie e ternarie, parole comprensibili, frasi fatte e motti. Non venne trascurato il fatto che questo tipo di sinteticità non solo risultava più enfatica e lineare, ma anche meglio diffondibile attraverso la stampa.

Il modello, nelle sue grandi linee, non è stato più abbandonato. In tempi più vicini era stata la dialettica di Silvio Berlusconi a scatenare un caso, il così detto Berlusconismo. Lo stile retorico si basava su un grande dispiegamento di ripetizioni (viste anche come tecnica di memorizzazione e strumento di persuasione) e l’uso di termini generici e elementari attingendo da vari ambiti di quella che viene percepita come “vita vissuta”. Ad esempio al momento della sua candidatura egli si riferì alla stessa come uno “scendere in campo”.

In breve la terminologia si riduce all’osso, così la grammatica e il concetto stesso. Ci si inserisce rapidamente in una logica che sfrutta con successo le strategie di marketing: colpire, provocare sensazione, imprimersi nella mente, essere facilmente trasmissibile.

In questi mesi questa scuola di pensiero linguistico ha svelato un maestro eminente, impostosi inaspettatamente alla scena Americana come potenziale candidato repubblicano alla corsa alla Casa Bianca, Donald Trump. Non a caso imprenditore di successo, grazie alla sua dialettica e al suo modo sfrontato di porsi in dibattiti pubblici sta riuscendo a soppiantare altri candidati con una lunghissima esperienza e delle basi forti.

Trump dopo la notorietà raggiunta per aver fatto del suo nome un vero brand (con cui ha venduto di tutto, dall’immobiliare alle bistecche), sta raccogliendo consensi altissimi proprio grazie alla sua striminzita, elementare e decisamente ilare arte della parola, che molto riprende da tutte quelle strategie di persuasione dell’acquirente che lui ben conosce.

L’uso di frasi brevi, poche subordinate, ripetizioni allo sfinimento, termini semplicistici di due o tre sillabe ribaditi senza sosta (problem, die, death, serious) lo rendono diretto e familiare, come un vicino di casa. Proverbiali sono anche alcune sue dichiarazioni, nelle quali non ci si risparmia mai, come l’ultima “io amo la gente ignorante”.

Il Boston Globe ha sottoposto i discorsi pubblici di Donald Trump e degli altri candidati al Flesch-Kincaid readability test (https://readability-score.com/ ), ovvero un test che misura quanto un passaggio in lingua inglese sia facile da comprendere alla lettura, basandosi su: numero di parole, numero di sillabe, numero di frasi secondo questa equazione:

206.835−1.015 (total words/total sentences) −84.6 (total syllables/total words).

Più basso è il punteggio raggiunto, più il testo appare comprensibile. Trump si accaparra il primo posto con un livello 4, ovvero comprensibile anche da un bambino più piccolo di 10 anni (Bernie Sanders si piazza all’ultimo posto con un livello 10.1, diciamo che serve almeno un ragazzo delle superiori).

L’effetto prodotto non è solo quello di una grande efficacia a livello di intendimento, ma di penetrazione. La semplicità, come il marketing insegna, si imprime con maggiore rapidità.

In più il tutto contribuisce a creare di lui l’immagine di un outsider del sistema, un uomo nuovo e coraggioso che si addentra in un mondo vecchio e posticcio con onestà e veracità, senza cedere alla costruzione. Questo è ovviamente falso e anzi ci sono probabilmente molti più esperti dietro una singola frase di Donald Trump che non dietro un trattato di semiotica.

Diciamo che ad oggi la nostra comunicazione nell’ambito della politica ha raggiunto una totale deformazione e una mostruosa spoliazione che si possono ritrovare facilmente in espressioni emblematiche come quella della “ruspa”, utilizzata dal segretario federale della lega Matteo Salvini.

L’idea di voler smettere di far percepire la politica come un qualcosa di settorializzato e lontano dal più della gente è indiscutibilmente nobile e giusta, ma in certi casi bisogna far attenzione alla fine che fa il concetto in tutto questo processo. Il linguaggio e l’espressione sono veicolo di un preciso contenuto ed è sbagliato pensare che la trasposizione di quest’ultimo non influenzi esso stesso.

Per fare un esempio esplicativo, il professor Vittorio Coletti, accademico della Crusca, in un suo articolo su “l’italiano debole dei poteri forti” mette in luce fra le varie riflessioni la diffusa sostituzione della novecentesca “lotta di classe” con “invidia sociale”.

La “lotta di classe” che porta in sé i concetti della fierezza e della solidarietà viene sostituita dall’invidia, un sentimento umano molto poco nobile e per sua connotazione piuttosto individuale.

È chiaro a questo punto che le parole nuove, anche qualora le si voglia assimilare ad altre, portino a significati diversi, e che la semplificazione estrema è sì molto vantaggiosa ma anche pericolosa.

Compito fondamentale e sempre più imprescindibile dell’individuo è quello di applicare sempre il suo spirito critico e la sua riflessività.

Nota: Per chi fosse interessato a concorrere alle prossime presidenziali o a un po’ di divertimento si segnala la app per cellulare YOU GOT TRUMPED. L’applicazione suggerisce una frase di Donald Trump per ogni situazione e promette di aiutarti a sentirti più sicuro, trovare un lavoro, avere successo e rendere gli Stati Uniti di nuovo grandi.

Giulia Idolatri13043470_10206878497901747_5220964602564964069_n

Studentessa di Scienze Politiche presso l’Università di Perugia

Profilo personale qui.

Sitografia

Matt Viser, The Boston Globe, 20 Ottobre 2015. For presidential hopefuls, simpler language resonates, https://www.bostonglobe.com/news/politics/2015/10/20/donald-trump-and-ben-carson-speak-grade-school-level-that-today-voters-can-quickly-grasp/LUCBY6uwQAxiLvvXbVTSUN/story.html)

Enciclopedia Treccani, Lingua del Fascismo, ultima consultazione 20/03/2016, http://www.treccani.it/enciclopedia/lingua-del-fascismo_(Enciclopedia_dell’Italiano)/)

Dott. Vittorio Coletti, Settembre 2013, L’Italiano della politica, Accademia della Crusca. Ultima consultazione 21/03/2016, http://www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/litaliano-debole-potere-forte

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