Riforma costituzionale, un’analisi oggettiva

 

Palazzo di Montecitorio, immagine disponibile su https://www.flickr.com/

E’ ormai cosa nota, almeno ai più, che nel prossimo novembre i cittadini saranno chiamati a esprimere il loro parere in ordine al disegno di legge di riforma costituzionale c.d. “Boschi” (dal nome del ministro per i rapporti col parlamento, Maria Elena Boschi, che ne ha seguito la formazione e l’iter parlamentare). La riforma dovrà essere infatti sottoposta al vaglio di un referendum confermativo, a norma dell’art. 138 Costituzione, in quanto approvata a maggioranza assoluta in sede di seconda votazione da entrambe le camere e poiché ne hanno fatto richiesta un quinto dei membri della camera. Trattasi di uno strumento di controllo popolare a tutela della Costituzione, ove a questa vengano apportate modifiche con una maggioranza inferiore ai due terzi dei membri del parlamento.

La forte valenza politica di cui questo referendum è stato caricato sia dal governo che dalle opposizioni, rende complicato comprendere quali siano realmente i pregi e i difetti di questa legge di revisione costituzionale: se da una parte viene incensata come la più importante riforma della costituzione dalla sua promulgazione nel 1948, dall’altra si scade troppo spesso in banali e un po’ retoriche accuse di autoritarismo. I toni particolarmente accesi del dibattito politico intorno a questa riforma tendono, in sostanza, troppo spesso a nascondere quelli che sono i veri contenuti della stessa, sia in positivo, che in negativo. L’obiettivo che si propone questo articolo è quello di inquadrare la legge punto per punto in una prospettiva di oggettività, il più possibile avulsa dalla discussione politica.

E’ anzitutto necessario precisare che la riforma incide esclusivamente sulla parte seconda della Costituzione, ovvero quella relativa all’ordinamento della Repubblica; in particolare vengono fortemente modificati il Titolo I relativo al Parlamento, il Titolo II relativo al Presidente della Repubblica e il Titolo V relativo a Regioni, Province e Comuni. Restano invece immutati l’intera parte prima, nonché i Titoli III e IV della parte seconda riguardanti il Governo e la Magistratura. Piccole modifiche intervengono sul Titolo VI relativo alle Garanzie Costituzionali.

Entrando nel merito, la principale modifica operata dal d.d.l. Boschi all’assetto vigente è la soppressione del bicameralismo perfetto (o paritario); trattasi del meccanismo secondo il quale, affinché un disegno di legge possa diventare ‘legge’, deve essere approvato col medesimo testo da entrambe le camere. I due rami del Parlamento danno così inizio alla c.d. navette, il “pingpong” del testo da una camera all’altra che spesso comporta tempi lunghissimi per il perfezionamento del procedimento legislativo.

Tale operazione è stata attuata mantenendo gli stessi poteri in capo alla Camera dei Deputati e trasformando il senato in una “Camera delle Regioni”. Immediata e fondamentale conseguenza è che il rapporto fiduciario fra parlamento e governo riguarderà esclusivamente la Camera dei Deputati: solo questa potrà concedere e togliere la fiducia a Palazzo Chigi. Il senato manterrà potere legislativo solo in merito a determinate materie espressamente previste nel testo della riforma che sono confluite nella nuova formulazione dell’art.70. In particolare l’approvazione del senato sarà ancora necessaria per: le leggi costituzionali, le leggi sull’ordinamento degli enti, le leggi relative all’attuazione del diritto UE, le leggi di attuazione del Titolo V, nonché relativamente alla legge elettorale del senato stesso. A questi si aggiunge una serie di casi in cui il senato ha tutta una serie di poteri, più o meno forti, per poter incidere sul testo approvato dalla camera: leggi attuative del 117 comma IV e leggi di bilancio o di stabilità; in queste ipotesi sarà comunque la camera ad avere l’ultima parola in caso di contrasto.

Per ciò che riguarda la sua composizione il nuovo senato sarà composto da 95 membri (oggi 315) rappresentativi delle istituzioni territoriali, nonché da 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per meriti particolari (i canonici senatori a vita). Tali senatori non verranno però eletti direttamente dai cittadini, ma dalle istituzioni territoriali di cui essi fanno parte (in particolare i consigli regionali) e la durata del loro mandato coinciderà con quella degli organi territoriali dai quali sono stati eletti. Si crea così un collegamento vincolante fra la carica assunta nell’organismo territoriale e quella di senatore: ove venga a decadere dalla prima, decadrà conseguentemente anche dalla seconda. Tale meccanismo porta con sé un rischio, posto fortemente in evidenza dai critici della riforma, legato all’immunità concessa ai senatori. Si sostiene sostanzialmente che in questo modo i consigli regionali potrebbero eleggere a senatore anche consiglieri sottoposti a indagini per garantire loro la totale impunità in virtù dell’immunità parlamentare concessa a tale carica (immunità che peraltro non si può pensare di non concedere in virtù dei poteri legislativi, seppur esigui, mantenuti dalla riforma in capo al senato). Tale problema si ridimensiona se si nota che, in fase di campagna elettorale per il rinnovo del consiglio regionale, i partiti saranno interessati ad indicare i loro candidati alla carica di senatore; saranno così i cittadini a prendere questa scelta, seppur per via indiretta, considerando anche questo fattore come formante della loro decisione in sede di voto regionale o amministrativo.

Al fianco di questa fondamentale modifica, troviamo poi due norme finalizzate a ridurre il fenomeno della decretazione di urgenza: oltre infatti a limitarne l’utilizzo per determinate materie, la riforma prevede che non potranno essere convertiti decreti legge per mezzo del procedimento semplificato in commissione.

Ulteriore pilastro del nuovo testo costituzionale è rappresentato da tutta una serie di interventi tesi a rispondere alle sempre più pressanti istanze di democrazia diretta. Si tratta in particolare del rafforzamento di due strumenti: in primo luogo, se da una parte si alza il numero di firme necessario per le proposte di iniziativa popolare (da 50 a 150mila), dall’altra si prevede un meccanismo per mezzo del quale tali proposte dovranno essere obbligatoriamente calendarizzate e discusse dalla camera (oggi il parlamento non è obbligato a considerare tali proposte); in secundis, viene introdotta una iniziativa referendaria rafforzata, che si affianca a quella tradizionale (che richiede 500mila firme), ove siano raccolte 800mila firme. In questo caso al fine del raggiungimento del ‘quorum’ non servirà il voto della maggioranza assoluta di tutti gli aventi diritto, ma basterà quello della maggioranza assoluta di chi ha partecipato alle ultime elezioni. Si tratta di un escamotage finalizzato a escludere dal quorum quell’elettorato che fisiologicamente si astiene e conseguentemente ad abbassarlo in maniera sostanziale (così i sostenitori del “no” potranno difficilmente fare affidamento o leva sull’astensionismo).

Con riferimento al titolo relativo al Presidente della Repubblica, la riforma è andata ad incidere sulle maggioranze necessarie all’elezione dello stesso. Trattasi di modifiche che seguono strettamente alle logiche della nuova legge elettorale, detta “Italicum”. Quest’ultima (prevista per la sola Camera, in coordinamento con la riforma costituzionale) prevede che il partito che raggiunga il 40% dei voti, ottenga la maggioranza assoluta dei seggi; ove ciò non accada, i due partiti più votati dovranno competere fra di loro in un ballottaggio, all’esito del quale, necessariamente, uno dei due avrà ottenuto la maggioranza assoluta dei voti con conseguente assegnazione della maggioranza assoluta dei seggi. Sostanzialmente L’”Italicum” porterà sempre un partito ad ottenere il cinquanta per cento più uno dei seggi ed è proprio questo il motivo dell’innalzamento delle maggioranze previste per l’elezione del capo dello stato: evitare che questo possa essere espressione del solo partito di maggioranza. In particolare si necessita dei due terzi dell’assemblea nei primi tre scrutini, dal quarto dei tre quinti della stessa, dal settimo dei tre quinti dei votanti. L’elezione è sempre svolta dal parlamento in seduta comune (dunque anche dai senatori).

Ulteriori importanti interventi sono: la soppressione immediata del CNEL (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro), organo consultivo di scarsa rilevanza, ma soprattutto la soppressione del riferimento alle Province la riorganizzazione del sistema delle competenze fra stato e regioni previsto dalla riforma del Titolo V del 2001. In particolare aumentano le materie di competenza esclusiva dello stato, la quale comprenderà anche: la disciplina dei procedimenti amministrativi e del pubblico impiego, tutta una serie di integrazioni alle materie già previste, nonché, soprattutto, la produzione e la distribuzione nazionale di energia e, infine, le infrastrutture strategiche, porti e aeroporti. Così la devoluzione di tali materie alla competenza esclusiva dello stato centrale dovrebbe, nell’ottica del legislatore costituzionale, garantire una maggiore semplicità e logicità nelle scelte di politica infrastrutturale e di politica energetica. Viene poi totalmente abrogata la disciplina della legislazione concorrente: la competenza è regionale o statale (nel caso, solo per determinate materie, lo stato dovrà limitarsi all’emanazione di sole norme di principio). Le Regioni mantengono potestà legislativa in alcune materie espressamente previste nel nuovo 117 cost., nonché in ogni materia non riservata alla competenza esclusiva dello stato (clausola aperta che indica competenza residuale). Si prevede infine una “clausola di supremazia” della legge statale su quella regionale quando, su proposta del governo, lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale. Ulteriore norma che, dopo il fallito tentativo di decentralizzazione della riforma del 2001, si innesta nel generale impianto centralistico della riforma in esame.

Ultime modifiche riguardano la corte costituzionale, sia sotto il profilo dell’accesso al giudizio, sia sotto quello della sua composizione. Con la riforma, infatti, un terzo dei suoi membri (cinque, essendo composta da quindici giudici) non saranno più eletti dal parlamento in seduta comune, ma tre dalla Camera e due dal Senato (i restanti due terzi continueranno ad essere nominati dal Presidente della Repubblica e dalle Supreme Magistrature ordinaria e amministrativa). Curiosa, infine, è la possibilità prevista al nuovo art. 73 per la quale, su richiesta di un quarto dei deputati, o di un terzo dei senatori, le leggi elettorali possano essere sottoposte ad un giudizio di legittimità costituzionale preventivo, il quale, in quanto tale, è necessariamente compiuto in astratto, derogando così all’ordinaria disciplina del giudizio su rinvio incidentale (per capire di cosa si tratta: Definizione di giudizio incidentale).

Cercando quindi di individuare lo spirito di questa riforma non si può ignorare il suo carattere fortemente centralista, in totale controtendenza rispetto all’ultima grande riforma del 2001, ma anche rispetto alla c.d. “Devolution” bocciata con referendum nel 2006. Si ha in sostanza un accentramento del potere nello Stato centrale, e al contempo una limitazione dei poteri e delle competenze degli enti territoriali; trattasi di una scelta certamente politica, ma in definitiva conseguente agli scandali che negli ultimi anni hanno coinvolto i Consigli e le Giunte regionali.

Ulteriore tratto fondamentale è quello che passa attraverso la soppressione del bicameralismo perfetto. Si è scelto di privilegiare il valore della ‘governabilità’, sempre più importante in questo periodo di instabilità economica prima che politica, a quello della ‘garanzia’. Non si è però andati ad aumentare in alcun modo i poteri del governo, il quale dovrà sempre rispondere del suo operato alla camera. Ciò che più preoccupa gli oppositori della riforma è il timore che il combinato disposto del bicameralismo imperfetto e della nuova legge elettorale possa concedere alla maggioranza parlamentare, e al governo di sua emanazione, un potere eccessivo. Si è però parlato apertamente di riforma dittatoriale e autoritaria forse con un po’ troppa facilità. Necessario è infatti considerare da una parte che la corte costituzionale continuerà a svolgere il proprio operato di tutela della Carta Costituzionale come ha fatto fino ad adesso, dall’altra che tutto ciò che è conforme alla costituzione rientra nella discrezionalità del legislatore che fonda la propria legittimità sul voto popolare.

D’altra parte deve sottolinearsi il carattere un po’ confusionario della riforma in esame. Più opportuna e lineare sarebbe stata la soppressione ‘in toto’ del senato, soluzione che avrebbe evitato da una parte il problema dell’elezione dei senatori, e dall’altra tutti i procedimenti speciali che richiedono il suo intervento nella procedura legislativa, norme complesse e di difficile interpretazione.

Non può dirsi se si tratta di una riforma giusta o sbagliata. Ciò che può dirsi è che si tratta di modifiche legittime frutto di chiare scelte politiche dettate dal tempo. Come d’altronde legittime sono le critiche che le vengono mosse.tabella riforma costituzionale paolo

paolo fratini

Paolo Fratini 

Info

  

 

Bibliografia

Violini, L., “Note sulla riforma costituzionale”, Le Regioni, fascicolo 1 (2015)

Cheli, E., “Luci e ombre di una riforma costituzionale”, Il Mulino, fascicolo 1 (2016)

Sitografia

Carlo Fusaro, “Guida al testo della riforma costituzionale”

https://stefanoceccanti.wordpress.com/2016/03/07/testo-a-fronte-della-costituzione-prima-e-dopo-la-riforma-a-cura-di-carlo-fusaro-versione-aggiornata/

Disegno di legge costituzionale 12 aprile 2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016

http://www.altalex.com/documents/news/2016/04/13/riforma-costituzionale-il-testo

Costituzione della Repubblica Italiana:

http://www.governo.it/costituzione-italiana/principi-fondamentali/2839

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