Criminalità minorile: il delicato punto di equilibrio tra punizione ed esigenze educative

 

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La questione della criminalità minorile è estremamente delicata, proviamo a immaginare: un ragazzino, esortato dal gruppo, ruba la merce in vendita in un supermercato e, nel tentativo di fuga, spintona il commesso che cade a terra procurandosi ferite alla testa. Questo configura reato di rapina che, ai sensi dell’art. 628 c.p., è punito con la pena edittale della reclusione da tre a dieci anni e con la multa da 516 a 2.065 euro. Una pena di questo tipo viene percepita dalla nostra coscienza come ingiustamente severa e capace di influenzare negativamente un soggetto non ancora pienamente maturo.

Di contro è diffusa anche l’impressione per cui, nei confronti dei minorenni che si rendono autori di fatti di reato, soprattutto quando si parla dell’ormai attuale fenomeno delle baby-gang, la risposta statale sia debole e i ragazzi siano incentivati a comportarsi in quel modo perché consapevoli di rimanere “impuniti”.

Entrambi questi aspetti pesano sugli estremi di una bilancia, il cui punto di equilibrio è difficile da trovare. Qual è la soluzione attualmente vigente nel diritto penale italiano, adottata dopo un percorso di perfezionamento iniziato nel 1934 con il regio decreto istitutivo del Tribunale per i Minorenni?

Nel diritto sostanziale, le uniche differenze che il legislatore ha introdotto per adeguare il sistema penale “degli adulti” alle esigenze dei minori, sono:

  • la previsione di una diminuzione di pena, ai sensi dell’art. 98 c.p., nelle ipotesi in cui l’autore del reato abbia meno di 18 anni e più di 14 in ragione della ridotta capacità di intendere e volere;
  • l’esclusione dell’ergastolo per i minorenni, grazie alla sentenza della Corte Costituzionale n. 168 del 1994.

Al fine di evitare i noti effetti stigmatizzanti dell’essere sottoposti a un procedimento penale non è però sufficiente una mera diminuzione di pena di questo tipo, ma è necessario che essa sia accompagnata da una normativa processuale in grado di garantire anche di fatto la specialità del processo penale minorile.

A questo scopo il legislatore, con la sentita riforma portata dal d.p.r. n.448 del 1988, ha adottato una particolare disciplina normativa con riferimento sia alle strutture giudiziarie sia alle regole del procedimento minorile.

Sotto il primo aspetto è predisposta una struttura specializzata caratterizzata da sezioni separate: una cerchia di giudici è destinata a trattare di criminalità minorile in via quasi esclusiva. I magistrati ordinari sono affiancati da giudici onorari, ossia soggetti scelti tra esperti in scienze umanistiche capaci di guidare la decisione grazie a una maggiore comprensione del comportamento tenuto dal minore. Per favorire la preparazione professionale delle persone che ricoprono questo ufficio, il Ministero della giustizia, in collaborazione col Consiglio Superiore della Magistratura, organizza dei corsi annuali di approfondimento delle problematiche relative alla famiglia e all’età evolutiva.

Per quanto attiene al processo in senso stretto, esso è caratterizzato da una serie di deroghe rispetto alla disciplina del rito ordinario, finalizzate a fornire una protezione ulteriore al minorenne e garantire una responsabilizzazione dello stesso attraverso la presa di coscienza dell’offesa arrecata dal proprio comportamento.

L’iter processuale è strutturato in modo tale da garantire l’uscita del minore dal processo il prima possibile e, a questo scopo, è stato valorizzato il ruolo dell’udienza preliminare, ossia l’udienza in camera di consiglio che anticipa il dibattimento vero e proprio.

Essa presenta sostanziali differenze con il corrispondente momento nel rito ordinario, e in esito alla stessa, l’alternativa tipica per gli “adulti” tra proscioglimento e rinvio a giudizio (con proseguimento del processo) lascia il posto a un’ampia gamma di opzioni decisorie in grado di adattare la conclusione del procedimento alle situazioni concrete in cui può essere coinvolto il minore. Al termine dell’udienza preliminare infatti l’organo giudicante può disporre la sospensione con messa alla prova, emettere la sentenza di non luogo a procedere o decidere di applicare una delle sanzioni sostitutive previste.

1) L’istituto della sospensione con messa alla prova permette di sospendere il procedimento e offrire al minore la possibilità di evitare la condanna e la pena in cambio della dimostrazione di un suo reale ravvedimento, da valutarsi all’esito di un periodo in cui è affidato ai servizi minorili ed è tenuto ad aderire a un progetto educativo adeguato alla sua situazione e personalità. Tale progetto può avere i contenuti più disparati: dall’obbligo di non frequentare determinati ambienti, a quello di rispettare determinati orari o impegnarsi nello studio. Se al termine il giudice riterrà presente un’evoluzione positiva della sua personalità, dichiarerà estinto il reato.

2) Altra formula decisoria tipica del rito minorile è la sentenza di non luogo a procedere, che può essere pronunciata per irrilevanza del fatto (quando il reato sussiste ma non vale la pena punirlo perché tenue e occasionale), per perdono giudiziale (quando il giudice ritiene che il minore non commetterà altri reati, per cui l’irrorazione della pena risulta superflua e dannosa) o per non imputabilità (quando il minore non è capace di intendere e volere, ossia di comprendere il disvalore del proprio gesto).

3) Le sanzioni sostitutive applicabili nei confronti dell’imputato minorenne, hanno invece lo scopo di evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti delle pene detentive brevi, ossia quelle fino ai due anni di reclusione, permettendo la sostituzione delle stesse con la pena pecuniaria, la semidetenzione e la semilibertà. Le ultime due, in particolare, permettono di scontare la pena all’esterno degli istituti carcerari attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale o attraverso la frequentazione, per dieci ore al giorno, di appositi istituti organizzati in modo tale da favorire l’integrazione del minore con la comunità esterna.

L’interesse del legislatore di rispettare le esigenze dei minori, passa anche dalla previsione della partecipazione al processo di soggetti ulteriori che affiancano il minore: i genitori, gli esercenti la responsabilità genitoriale e i servizi minorili.

Questi ultimi, definiti come “ausiliari dell’organo giudicante”, sono formati dai servizi di amministrazione della giustizia, costituiti da una serie di centri di competenza regionale, con sezioni distaccate in alcuni capoluoghi di provincia, e dai servizi sociali istituiti presso gli enti territoriali.

Il loro ruolo è quello di garantire la mediazione tra giudice e imputato minorenne, essi infatti sono chiamati a svolgere quelle indagini relative alla situazione personale, famigliare e sociale del minore, necessarie ai fini della decisione.

Al termine di questa breve analisi si nota come l’intero sistema penale destinato ad occuparsi della criminalità minorile sia caratterizzato da una continua ricerca di equilibrio tra esigenze punitive e tentativo di rieducazione del minore.

L’impianto complessivo non è ancora perfetto, persistono delle contraddizioni legate soprattutto ai delicati interessi in gioco. Tuttavia la tendenza è positiva: si è preso coscienza della necessità di garantire la partecipazione al procedimento di coloro che hanno effettivamente conosciuto il minore e una maggiore preparazione degli organi giudicanti affinché comprendano la sua peculiare situazione, favorendone il reinserimento sociale.

 

Gaia Nova

Gaia Nova

Info

 

 

Bibliografia

M. Bargis (a cura di), Procedura penale minorile, Torino, Giappichelli, 2016

E. Zappalà (a cura di), La giurisdizione specializzata nella giustizia penale minorile, II edizione, Torino, Giappichelli, 2015

Sitografia

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_5_5.page

http://www.ristretti.it/areestudio/minorile/inchieste/viale2.htm

http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/minori/rugi/cap1.htm

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