Il 22 Settembre 2016, si è svolto in alcune città d’Italia il Fertility Day, una giornata volta all’informazione e alla formazione sulla fertilità diretta principalmente a contrastare il calo demografico dovuto alle poche nascite. Già dal primo annuncio della rassegna, il ministro Lorenzin ha iniziato a subire delle forti critiche soprattutto verso la campagna pubblicitaria (accusata di insensibilità e perfino razzismo) che hanno compromesso il successo della manifestazione (cfr. Rubino, 2016).
Che l’iniziativa fosse discutibile in partenza, semplicemente presentata in maniera sbagliata o meno, non è così importante (in questo ambito), è però innegabile che la si può utilizzare (insieme alle sue critiche) come spunto di riflessione per affrontare un argomento che già da metà del secolo scorso ha iniziato a interessare varie discipline, tra cui l’antropologia medica: la medicalizzazione e, in particolare, quella del corpo femminile.
Partendo dal più generale processo di medicalizzazione, nel saggio di Gianfranca Ranisio si trova una possibile definizione: «L’applicazione delle conoscenze e delle tecnologie mediche ad aspetti della vita che storicamente non erano considerati pertinenza medica, o meglio come un processo di sconfinamento della medicina al di là dei suoi limiti, per cui problemi non medici sono definiti e trattati come problemi medici» [Cozzi, 2012:67]. Questo processo, così inquadrato e da non estraniare dal contesto storico e sociale che lo ha reso possibile, è stato favorito da svariati fattori, nonché diversi attori sociali (tra i quali gli stessi pazienti, ma anche l’industria farmaceutica) e ha avviato una serie di nuove forme di patologizzazione di eventi in precedenza considerati “naturali”1.
Questo ha interessato particolarmente alcuni aspetti della vita della figura femminile, soprattutto quelli “fisiologici” relativi al ciclo riproduttivo: mestruazioni, gravidanza e menopausa (cfr. Cozzi, 2012). L’autrice, basandosi su degli studi delle antropologhe Emily Martin e Margaret Lock, osserva che la monitorizzazione costante degli stati di gravidanza e menopausa, la “costruzione” della cosiddetta PMS (sindrome premestruale) e la visione del ciclo mestruale come debilitante (e da gestire come evento patologico, per “vivere meglio”), invece di essere un ausilio alla vita quotidiana, sembrano, in un certo senso, ri-conferire al corpo femminile quello status di inferiorità fisica postulata da Aristotele. Il filosofo, infatti, «sancisce come naturale [questa inferiorità] e rappresenta il corpo femminile come imperfetto e impuro», freddo e indebolito dalla costante perdita di sangue «portatore di vita» (Ibidem). Inoltre, dalla riflessione della Ranisio emerge che l’eccessiva attenzione bio-medica verso questi eventi tende a finalizzare la vita della donna alla riproduzione, comportando che “normale” è solo il corpo in età riproduttiva (Ibidem).
Il caso della gravidanza è uno dei più evidenti dal punto di vista della medicalizzazione, poiché un’altissima percentuale di donne in stato interessante si sottopone a periodici controlli (anche più del necessario) per essere sicure di non incorrere in rischi e problematiche di vario genere. «Per contrastare questa tendenza, l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha fatto una valutazione scientifica delle procedure utilizzate e sulla base dei risultati ottenuti ha proposto un modello di assistenza “leggero” per le gravidanze non a rischio che prevede 4 visite […], una sola ecografia ostetrica, vari screening, una sola analisi del sangue, e una percentuale di parti cesarei non superiore al 15%» [Pinnelli, 2007]. Tuttavia, in indagini dell’ISTAT anche più recenti (tra cui una del 2010) si è visto come i parti cesarei siano arrivati al 39%, mentre le donne che si sottopongono a più visite del previsto in gravidanze non a rischio risultano essere la maggior parte (cfr. Panetto, 2014).
Un altro caso interessante, approfondito dalla storica Barbara Duden, sembra essere quello della pillola anticoncezionale, che l’autrice vede come «paradigma della tecnica contemporanea che non serve per “fare” qualcosa, ma per “determinare” e “impostare” una certa condizione a proprio piacimento» [Duden, 2006:135]. Un articolo de Il Fatto Quotidiano del 2012 rivela che, in Italia, solamente il 16% delle donne in età fertile ricorrono alla pillola come metodo contraccettivo (le altre si affidano al coito interrotto o al preservativo) (cfr. Lapertosa, 2012). Allora, cos’è la pillola e cosa rappresenta? Prima di tutto è un farmaco principalmente per donne sane2 (da qui il suo collegamento alla medicalizzazione), ma «è diventata emblematica di nozioni quali regolazione, impostazione, trasformazione, reintegrazione nel sistema, sostituzione di condizioni di sistema. […] La pillola è perfettamente in linea con il comportamento, l’esperienza e la logica della contemporaneità» [Duden, 2006:142]. È un sentore di cambiamento, di interruzione di qualcosa che l’autrice definisce come “fisiologico”, ma, nonostante sembri accanirsi sul farmaco, Duden ci tiene a sottolineare come lei stessa sostenga la possibilità di scelta della donna che si fa carico di prendere un farmaco (che farmaco non è) ogni giorno, pur che sia cosciente di ciò che le sta accadendo e dei processi di cui è parte (Ibidem).
Per concludere questo breve excursus di esempi, è bene tornare al saggio di Gianfranca Ranisio già citato in precedenza, dove l’antropologa spiega come il fenomeno di medicalizzazione non ha una percezione univoca, ma l’attitudine delle persone verso lo stesso «può essere positiva, negativa o ambivalente [e] può mutare nel corso del tempo» [Cozzi, 2012:82]. Fatto sta che molte donne accettano il processo (applicato ai vari stadi del ciclo riproduttivo) per convenienza o sicurezza personale, anche rinunciando parzialmente a una libertà “ideologica” (quindi assoggettandosi al dominio della biomedicina), ma privilegiandone una fisica, come nel caso dell’assunzione della pillola che blocca il ciclo mestruale od ormoni sostitutivi nel corso della menopausa (Ibidem).
1 Uno degli elementi che ha sicuramente influenzato la nascita e la “popolarità” del processo di medicalizzazione è l’accettazione a livello culturale della divisione fra mente e corpo (cfr. Cozzi, 2012: 67). Pensata dal filosofo francese Cartesio nel XVII secolo, questa dicotomia si è “imposta” come una sorta di realtà naturale, invece di essere vista come frutto di un processo storico del mondo occidentale (cfr. Pizza, 2015: 51-56).
2 In questa sede non si vuole entrare in maniera approfondita nel discorso biomedico che riguarda i metodi anticoncezionali, ma è bene ricordare che molte donne che prendono la pillola lo fanno anche per motivi di salute, come ciclo irregolare, forte dismenorrea, endometriosi etc.
Bibliografia
Cozzi, D., a cura di., Le parole dell’antropologia medica. Piccolo dizionario, Morlacchi Editore, Perugia, 2012
Duden B., I geni in testa e il feto nel grembo. Sguardo storico sul corpo delle donne, Bollati Boringhieri, Torino, 2006
Pizza, G., Antropologia Medica, Carocci editore, Roma, 2015
Sitografia
Fertility Day 2016 – Proteggi la tua fertilità: http://www.fertilityday2016.it/
Lapertosa, A. (2012), Contraccezione, solo il 16 per cento delle italiane usa la pillola: “Come in Iraq”, IlFattoQuotidiano.it: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/07/06/contraccezione-solo-16-per-cento-delle-italiane-usa-pillola-come-iraq-e-botswana/254970/
Panetto, M. (2014), Gravidanza sicura o medicalizzazione a tutti i costi?, Il Bo – Il giornale dell’Università degli Studi di Padova: http://www.unipd.it/ilbo/content/gravidanza-sicura-o-medicalizzazione-tutti-i-costi
Pinnelli, A. (2007), La medicalizzazione della gravidanza e del parto, SISmagazine: http://old.sis-statistica.org/magazine/spip.php?article47
Rubino, M. (2016), Fertility Day, Renzi: “Campagna inguardabile”. Lorenzin: “Basta polemiche, contano i fatti”, La Repubblica.it: http://www.repubblica.it/politica/2016/09/22/news/fertility_day_al_via_proteste_piazza-148297333/