Omicidi, violenze pubbliche, rapine, pestaggi, sono eventi che sentiamo quasi quotidianamente dalla cronaca, tanto che, a volte, non ci stupiscono più. In molti casi può destare scalpore che la vittima non sia riuscita a ricevere nessun tipo di aiuto dai testimoni diretti della scena di aggressione. Le norme culturali ed etiche della nostra società prevedono di aiutare chi si trova in difficoltà. Oltre a tali regole di condotta, ciò che potrebbe far crescere maggiormente il vostro disappunto, nel leggere casi analoghi di noncuranza del prossimo, sta nel vostro senso morale. Sembra inconcepibile lasciare una persona da sola in una situazione di sofferenza.
Darley e Latané, di fronte all’ennesimo caso di aggressione, hanno iniziato a studiare questo fenomeno, per scoprire tutti i fattori psicologici e situazionali che intervengono in ciò che chiamarono effetto testimone.
Nel 1964, a New York, Kitty Genovese, un giovane donna, venne aggredita ed uccisa in mezzo alla strada di fronte a 38 persone che, nonostante le urla e il sangue, non intervennero a darle soccorso. L’opinione pubblica attribuì la causa di questa inerzia “al decadimento morale e all’alienazione dell’uomo del tempo” [Darley, Latané 1968]. Gli studi di Latané e Darley, i primi ad analizzare il fenomeno, dimostrarono che erano implicati fattori di altra natura.
Essi, dopo diversi esperimenti, elaborarono il loro modello psicologico di helping behaviour (comportamento di aiuto). Si tratta di un modello stadiale, in quanto essi sostenevano che accorrere in aiuto di una persona in difficoltà fosse il risultato di un processo fatto di diverse fasi [Fischer et al., 2011]:
- notare la situazione critica;
- percepire la situazione come di emergenza;
- sviluppare un sentimento di responsabilità personale;
- prendere la decisione di agire.
I due autori individuarono tre differenti meccanismi psicologici che possono interferire con questo processo e che costituiscono i punti cardine dell’effetto testimone (Darley, & Latané, 1968):
- diffusione della responsabilità: la presenza di altri testimoni ostacola lo sviluppo di un sentimento di responsabilità che viene diviso fra i presenti, facendo in modo di considerare se stessi esenti dall’intervenire. Nello specifico, quanto più il numero dei testimoni è elevato tanto meno si avvertirà un senso di responsabilità;
- paura di essere giudicati: si ha paura di compiere errori o di agire in maniera inadeguata. Inoltre, si teme di essere ritenuti responsabili dell’accaduto (confusione della responsabilità), in quanto vi è la norma sociale di aiutare le persone a cui si è arrecato danno;
- ignoranza collettiva: gli studi sull’influenza sociale dimostrano come in situazioni ambigue il comportamento e le reazioni altrui diventano un’importante fonte di informazioni per capire la realtà (cfr. Boca, Bocchiaro, Scaffidi Abbate, 2010). Se l’individuo non percepisce immediatamente la condizione di emergenza e si affida alla reazione degli altri, i quali, però, appaiono altrettanto confusi ed incerti e, quindi, inermi, allora si valuterà la situazione come non pericolosa e non si avrà la motivazione ad agire.
E’ stato dimostrato, inoltre, che non è necessario che siano presenti testimoni reali, in carne ed ossa, che determinino la diffusione della responsabilità, ma è sufficiente che nella mente dell’individuo si attivi il costrutto di un gruppo per inibire la presa di responsabilità in contesti di pericolo. Questo fenomeno prende il nome di “effetto testimone implicito” [Garcia, Weaver, Darley e Spence, 2009].
Gli studi dei due autori risalgono al 1968. Successivamente sono stati condotti moltissimi studi circa l’effetto testimone in diverse situazioni sperimentali, considerando diverse variabili di mediazione e di moderazione, cioè fattori che intervengono e/o rendono l’effetto testimone meno intenso o, addirittura, nullo1 [Fischer et al., 2011].
Sinteticamente, da questi studi (ibidem) è stato rilevato che:
- in condizioni percepite come altamente pericolose l’effetto testimone si riduce, in quanto aumenta lo stato di attivazione interna a causa della sofferenza della vittima e la percezione dei costi e delle perdite nel caso in cui non si intervenga. L’intervento di aiuto diminuisce tale stato di tensione interna;
- la presenza di testimoni può diminuire l’effetto testimone nel caso in cui si percepiscono i presenti come un aiuto nell’intervento, soprattutto quando si ha paura di subire un danno;
- se gli altri vengono percepiti come aiuto, allora si può giungere ad un aiuto nel momento in cui si arriva alla conclusione che più individui possono sopraffare un criminale.
Alla luce di quanto detto, sorge spontanea una considerazione. L’omicidio di Kitty Genovese ha destato molto scalpore e molti si sono prodigati in considerazioni di natura morale, senza tenere minimamente in considerazione come molti meccanismi della nostra mente avvengano in maniera del tutto automatica, senza controllo volontario alcuno. Nonostante i progressi ottenuti dalla psicologia sociale cognitiva e dalla psicoanalisi, ancora oggi eventi di tale portata possono indurci un interrogativo spinoso. Ossia, è possibile che la conoscenza che abbiamo di noi stessi e del nostro modo di agire e porci nell’ambiente sia insufficiente?
Oltre a portarci a considerazioni di natura etica e morale, eventi del genere sarebbero da valutare con maggior consapevolezza, per poter essere concretamente attivi e impegnati a farsi portavoce di una società attenta alle necessità altrui.
In tal senso, è opportuno tenere in considerazione che, accanto ai processi automatici della nostra mente vi sono anche quelli che derivano dalla nostra volontà, ed è a quest’ultimi che dobbiamo appellarci, per costruire il senso della nostra responsabilità sociale.
- Per una rassegna degli studi condotti sull’effetto testimone si veda Peter Fischer, Joachim I. Krueger, Tobias Greitemeyer, Claudia Vogrincic, Andreas Kastenmuller, Dieter Frey, Moritz Heene, Magdalena Wicher, Martina Kainbacher “The Bystander-Effect: A Meta-Analytic Review on Bystander Intervention in Dangerous and Non-Dangerous Emergencies”, in Psychological Bulletin 2011, Vol. 137, No. 4, 517–537, dove gli autori descrivono in maniera dettagliata gli studi condotti e i relativi risultati.
Bibliografia
B. Latané, J.M. Darley,”Group Inhibition Of Bystander Intervention In Emergencies”, in Journal at Personality and Social Psychology 1968, Vol. 10, No. 3, 215-221.
J.M. Darley, D. Batson, “”From Jerusalem To Jericho”: a study of situational and dispositional variables in helping behavior”, in Journal of Personality and Social Psychology 1973, Vol.27 , No.1 , 100-108.
J.M. Darley, B. Latané, “Bystander intervention in emergencies: diffusion of responsability”, in Journal of Personality and Social Psychology 1968, Vol. 8, No. 4, 377-383.
P. Fischer, T. Greitemeyer, F. Pollozek e D. Frey, “The unresponsive bystander: Are bystanders more responsive in dangerous emergencies?”, in European Journal of Social Psychology 36, 267–278 (2006).
Peter Fischer, Joachim I. Krueger, Tobias Greitemeyer, Claudia Vogrincic, Andreas Kastenmuller, Dieter Frey, Moritz Heene, Magdalena Wicher, Martina Kainbacher, “The Bystander-Effect: A Meta-Analytic Review on Bystander Intervention in Dangerous and Non-Dangerous Emergencies”, in Psychological Bulletin 2011, Vol. 137, No. 4, 517–537.
S. Boca, P. Bocchiaro, C. Scaffidi Abbate, Introduzione alla psicologia sociale, Mulino, Bologna, 2010.
S. Boca, C. Scaffidi Abbate (a cura di), Altruismo e comportamento prosociale. Temi e prospettive a confronto, Franco Angeli, 2011.