Il cervello umano è razzista?

La globalizzazione, fenomeno di unificazione dei mercati a livello mondiale, ha consentito la progressiva riduzione degli ostacoli alla libera circolazione di merci e capitali e ha permesso agli uomini di venire a contatto con costumi, pensieri e beni culturali di altri popoli (Treccani, Enciclopedia Online). L’espansione della cultura del libero mercato ha sdoganato il movimento delle persone da un confine all’altro, grazie all’abbattimento delle barriere spaziali tra le nazioni; movimento esacerbato, negli ultimi decenni, da numerosi conflitti irrisolti nel mondo. Questo fenomeno, però, non è visto come un aspetto utile della globalizzazione per favorire il progresso dato che i termini più ricorrenti per descriverlo sono quelli di “espulsione”, “razionamento degli ingressi” e “permessi speciali” (S. Zamagni, 2017). Si potrebbe dire che una sorta di Sindrome di Johannesburg si stia diffondendo nel globo: si ha sempre più paura dei poveri, dei diversi, e l’unica difesa possibile sembra quella di ostacolare il flusso migratorio (D. De Masi, 2017).

Ovviamente non tutti la pensano allo stesso modo ed è proprio per questo che nell’ultimo periodo si sta consumando una diatriba tra chi vorrebbe fare un passo indietro a questo processo di liberalizzazione e chi crede che la piaga razzista in cui versa il mondo non sia più tollerabile. É quindi importante chiedersi: che cos’è davvero il razzismo? E, soprattutto, qual è la sua origine?

Gobineau (1816-1882), diplomatico e saggista francese, autore di un importante saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, sostenne che il fulcro della dottrina razzista derivi dal caratterizzare le diverse razze secondo proprietà psicologiche particolari. In questo modo le persone, che siano bianche, gialle o nere, risultano ineguali solo per le loro specifiche attitudini e non per una qualche peculiare base biologica. Perciò, nel caratterizzare le razze che ci circondano, ci discostiamo sempre dalla verità scientifica, sia per definirle in modo positivo che in modo negativo (Levy-Strauss, edizione 2002).

Occorre distinguere due diverse connotazioni insite al concetto di razzismo (M. Bosman, 2012):

  • Il razzismo ideologico, come forma di razzismo esplicita, basata sulla convinzione che i tratti e le abilità della propria razza la rendano superiore alle altre. Nel corso del tempo, è stata la fonte di razzismo che ha permesso l’organizzazione di gruppi intolleranti, discriminanti e incitanti all’odio, basati sulla supremazia di una sola razza, come il Ku Klux Klan.
  • Il razzismo condizionato, come forma di razzismo implicita, posta alla guida del comportamento basandosi su fattori che influenzano la risposta automatica del cervello in maniera inconscia, come il tono della pelle, la lingua e il credo religioso.

Tajfel e Turner hanno studiato il bisogno degli esseri umani di sentirsi parte di un gruppo proponendo la Teoria dell’Identità Sociale, secondo la quale l’identità si costruisce attraverso tre processi (Tajfel, 1982):

  • Categorizzazione: l’individuo costruisce categorie di appartenenza sociale per massimizzare le somiglianze tra gli individui della stessa categoria;
  • Identificazione: l’appartenenza alle diverse categorie getta le basi per l’identificazione con gli altri visti come simili e per lo stabilirsi di un “inventario umano” nel quale annullare le proprie differenze per la creazione di un insieme armonioso, seppur rischioso, dato che non tutte le culture differiscono tra loro allo stesso modo (Levy-Strauss, edizione 2002);
  • Confronto Sociale: l’individuo paragona il proprio gruppo di appartenenza  (ingroup) con gruppi esterni (outgroup), svalutando gli altri e premiando sempre la propria cerchia.

L’appartenenza ad un gruppo basta per scegliere di appoggiare sempre le persone della propria categoria sociale a discapito degli altri, anche basandosi su motivazioni decisamente troppo semplicistiche o del tutto banali (Tajfel, 1982).

La differenza tra ingroup e outgroup tiene conto di cinque fattori, identificati nel Modello SCARF (D. Rock, 2008). Questi elementi caratterizzano l’adesione alla propria categoria sociale e favoriscono l’identificazione con il proprio gruppo di appartenenza:

  • Status (l’importanza del proprio ruolo);
  • Certainty (l’abilità di predizione e programmazione del futuro);
  • Autonomy (percezione del controllo sull’ambiente e sugli altri);
  • Relatedness (decidere se gli altri fanno parte dell’ingroup o dell’outgroup);
  • Fairness (attribuzione dei valori di equità e giustizia alle azioni altrui).

Quando l’individuo è lontano dal proprio gruppo di appartenenza, il cervello percepisce la mancata adesione a questi fattori negli altri e ciò porta all’attivazione del sistema nervoso simpatico, che mette in atto la reazione “fight or flight”, risposta di attacco o di fuga, descritta per la prima volta dal fisiologo americano Cannon negli anni ‘20 (Roelofs, 2017). Si tratta di un meccanismo primitivo, biologico, che si manifesta di fronte ad un evento minaccioso e dona forza all’individuo per mobilitare le sue risorse e difendersi dalla situazione pericolosa. Si attiva automaticamente grazie al sistema nervoso autonomo e quando gli individui sono ripetutamente sollecitati da eventi stressogeni, questa risposta viene riprodotta in maniera maladattiva, fino a prosciugare le difese immunitarie della persona (F. Cocchi, 2012).

Studi con la risonanza magnetica funzionale hanno permesso di stabilire che il sistema nervoso simpatico si attiva in queste situazioni di distacco dal proprio ambiente sociale, perché avvertito dall’amigdala, una parte del cervello che gestisce le emozioni e in modo particolare la paura. L’amigdala è risultata particolarmente attiva negli individui inseriti in contesti culturali diversi dal proprio (Hart et al., 2000).

L’amigdala riceve messaggi dalla corteccia e del talamo: nel primo caso le informazioni sono molto dettagliate e servono a preparare una risposta congrua alla situazione; nel secondo caso le informazioni sono scarne, ma indispensabili per una risposta pronta a far uscire l’individuo da un pericolo reale o presunto (LeDoux, 2003). Dunque, quando ci si trova vicini a persone estranee dalla propria cerchia, il cervello percepisce tale situazione come pericolosa e l’amigdala innesca una risposta automatica alla minaccia, per poi classificarla come ingiustificata in un secondo processo di elaborazione.

Ciò dimostra che il cervello ha una predisposizione verso il razzismo condizionato. É possibile, però, affrontare questa reazione neurale, per evitare di attuare comportamenti discriminanti?

Le risposte dettate dalla paura sono difficili da annullare rispetto alle risposte scatenate da stimoli neutri. Per non farsi trarre in inganno dall’automatismo del proprio cervello, è possibile cambiare modo di pensare e di parlare in relazione alle altre razze, per poter riformulare il proprio patrimonio di immagini mentali costruito sugli individui dell’outgroup (M. Bosman, 2012). In questo modo non si annullerà la risposta automatica dell’amigdala, ma si potranno modificare quei percorsi neurologici, sfruttando la plasticità del cervello umano per aiutarlo nel riconoscimento delle reali minacce atte a deturpare il nostro spazio vitale.


Valentina Massaroni

Info

 

 

Bibliografia

A. J., Hart, P.J., Shin, L.M., Mclnerney, S.C., Fischer, S.L., Rauch (2000). “Differential response in the human amygdala to racial outgroup vs ingroup face stimuli” in Neuroreport, 11 (11) 2351-2355

C. Lévi-Strauss (2002). “Razza e storia-Razza e cultura” Editore Einaudi. Collana Piccola Biblioteca Einaudi, Nuova Serie pp. 5 -49

D. De Masi (2017). “Lavorare Gratis, Lavorare tutti. Perché il futuro è dei disoccupati” Rizzoli Libri, Milano

D. Rock (2008). “SCARF: a brain-based model for collaborating with and influencing others” in NeuroLedership Journal, 1-9

H. Tajfel (1982). “Social Psychology of Intergroup Relations” in Annual Review of Psychology, 33: 1-9

J. Ledoux (2003). “The emotional brain, fear and the amygdala” in Cellular and Molecular Neurobiology, 23 (4-5) 727-38

K. Roelofs (2017). “Freeze for action: neurobiological mechanisms in animal and human freezing” in Philosophical transactions, 372 (1718)

M. Bosman (2012). “Your racist brain: the neuroscience of conditioned racism” in Strategic Leadership Institute

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/globalizzazione

http://www.volint.it/vis_files/files/MondoPossibile502017b%202_Parte1_0.pdf

http://conup.unipg.it/Iniziative/04/ATTI/04COCCHI.pdf

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