Abbiamo mai pensato a quello che avviene nella nostra mente quando vediamo qualcuno? Che meccanismi si innestano nella nostra psiche? Le conoscenze sono organizzate nella memoria in diverse forme strutturali come categorie, prototipi e schemi. Il processo di categorizzazione è una strategia cognitiva che consente di mettere insieme elementi simili tra loro (Celia, 2015). Se da un lato può essere considerato positivo, perché ci aiuta a trovare una forma comportamentale da attuare nei confronti di una persona, dall’altro potrebbe creare errori perché, una volta inserito in una determinata categoria, il soggetto non potrà rientrare in altre, riducendo le informazioni e le sfaccettature che caratterizzano ogni essere umano, rendendolo unico e irripetibile. La tendenza a categorizzare ci induce a ritenere “diverso” da noi qualcuno che non rientra in un determinato stereotipo preesistente nella nostra mente. «Ricorrendo ad uno stereotipo per valutare una persona non facciamo altro che attribuire in maniera indistinta quelle caratteristiche a tutti i membri di una categoria di persone, trascurando le possibili differenze intercategoriali» (ibidem).
Questo, ad esempio, è ciò che è avvenuto in passato nei confronti dei ‘malati di mente’, considerati “diversi” e che sono stati esclusi dalla società. Rilegati nei manicomi, dove erano obbligati a restare fino al momento, raro, della loro guarigione venivano sottoposti a dubbie modalità di cura. Grazie alla legge n.180, comunemente conosciuta come legge ‘Basaglia’,nome del promotore lo psichiatra Franco Basaglia, queste strutture furono chiuse per garantire ai pazienti una qualità di vita adeguata al loro essere persone.
Perché i “pazzi” sono stati esclusi dalla società?
Riprendendo il ragionamento sopra esposto, possiamo affermare che i “matti” non rientravano nella categoria persona, concepita nel mondo occidentale in linea al pensiero Kantiano. Secondo il filosofo per essere ritenuti tali bisogna possedere facoltà mentali e morali che permettano all’individuo di sentirsi uguale all’altro e di garantire un certo grado di reciprocità. La concezione Kantiana risale alla tradizione stoica greco-romana nella quale il concetto di persona si identifica con la ragione (assegnando un ruolo preminente alla capacità di giudizio morale) che è considerata una caratteristica degli esseri umani che li distingue dagli animali e dalla loro stessa animalità. Kant, riprendendo Hobbes prima di lui, elabora una scissione più specifica dell’uomo facendolo risiedere in due sfere:
- La sfera della necessità naturale (lato animale della vita e razionale)
- La sfera della libertà razionale/morale (sfera dei fini e della dignità)
«Egli concepisce tutti gli animali non umani, e il lato animale della vita umana, come appartenenti alla sfera deterministica della natura. È in virtù delle nostre capacità di razionalità morale, e solo per questo, che ci innalziamo oltre questa sfera ed esistiamo, quindi, nella sfera dei fini» (Nussbaum 2007:150). L’uomo grazie alla morale provvede ai suoi bisogni, ed è proprio nel farlo che da conferma del suo essere persona razionale/morale . L’animalità in sé non ha fini, quindi agli animali viene attribuito un valore relativo in relazione ai fini umani. Questa considerazione fatta per gli animali può essere parallelamente fatta anche per tutti gli individui che difettano delle capacità complesse del ragionamento morale e prudenziale, caratteristica della concezione kantiana degli esseri umani maturi.
La visione di uomo-malato che emerge svilisce e riduce la concezione di persona a qualcosa di simile ad un animale, da tenere sotto chiave e controllo:
«eravamo chiusi, chiusi con la rete e non basta chiusi, eravamo anche messi in soggiorno in ottanta e non trovavamo neanche sedili, dovevamo gettarci per terra. Non potevamo nemmeno andare in cesso. Dopo c’era che… alle cinque della sera cenare e subito a letto, anche d’estate, piena estate, quando c’erano ancora tre ore di sole. E ci mandavano a letto, col boccone in bocca. Io uscivo fuori a prendere un po’ d’aria nel cortile e subito veniva qualcuno a prendermi (Andrea)»
«Tutto il giorno, dalla mattina alla sera e anche alla notte ci legavano a letto i piedi, le spalle, tutto, come il Signore in croce…(Margherita)»
Da queste diverse testimonianze inserite nel libro L’istituzione negata di Franco Basaglia (2010) è possibile constatare come i pazienti erano trattati nei manicomi, come venivano sottoposti a pratiche spesso violente e soprattutto disumane.
La svolta
Prendendo spunto dall’operato di Henri Collomb a Fann, Franco Basaglia promuove in Italia momenti assembleari di incontro aperti a tutti. All’interno di questi incontri veniva a delinearsi un modello di presa in carico dei disturbi psichici totalmente innovativo e rivoluzionario. Questo approccio ha prodotto una struttura dove «I pericolosi non ci sono; quelli che urlano, si agitano, tentano di assaltare il medico, l’infermiere, il visitatore, non ci sono perché non essendoci in questa comunità sbarre, cancelli, camicie di forza, mezzi di coercizione generatori di violenza non si avverte quel clima d’ansia tumultuosa» (Basaglia, 2010, p.18). Questa nuova modalità di agire ha portato ad un cambio di visione e prospettiva agli stessi pazienti: «perché prima quelli che erano qui pregavano di morire. Quando moriva uno qui una volta suonava sempre la campana, adesso non usa più. Quando suonava la campana tutti dicevano: oh Dio, magari fossi morto io, dicevano, che sono tanto stanco di fare questa vita qui dentro. Quanti di loro sono morti che potevano esser vivi e sani» (Ivi, p.15).
Con Franco Basaglia è stata attuata nei confronti dei cosiddetti “folli” una “rivoluzione liberatrice”: i pazienti stessi hanno iniziato a percepirsi diversamente, prendendo coscienza di uno status che li vedeva mutare con crescente dignità, trattati non più come “bestie”, bensì come persone.
L’educazione come rimedio
Dal momento in cui il folle esce dai manicomi, si libera dalle camicie di forza e riacquista la sua individualità, il suo essere-nel-mondo. Se definiamo l’educazione come «l’autorealizzazione del soggetto-persona, socialmente e culturalmente orientato, sulla scorta di una costellazione di conoscenze, competenze, valori e significati, in vista di un orizzonte di senso» (Acone, 2001, pp.22-23), è evidente che al centro del processo educativo e rieducativo ci sia la persona. Il soggetto-persona è “potenziale umano” ed ha bisogno di orientare/progettare la sua vita in termini di significato universale (di senso), è fatto di emozioni, affettività, cognizione, bisogni, desideri ma è anche coscienza, libertà, responsabilità, razionalità e intenzionalità. L’educazione deve, dunque, sorreggere il compito evolutivo di senso della formazione del soggetto, in un processo guidato da esperienze personali, culturali, sociali nella relazione, appunto tra l’orizzonte culturale e di quello senso. Se dunque, non ci limitiamo al concetto kantiano di persona, l’azione educativa è rivolta a tutti, perché tutti siamo persone e tutti dobbiamo essere trattati come tali.
Bibliografia
Acone, G., Fondamenti di pedagogia generale, EdiSud Salerno 2001
Basaglia, F., L’istituzione negata, Editore Baldini Castold,i 2010
Celia, M., “La costruzione delle categorie”, in Sibilio, M, e Aiello, P., (a cura di), Formazione e ricerca per una didattica inclusiva, Franco Angeli, 2015
Coppo, P., Etnopsichiatria, Editore il Saggiatore, 1996
Nussbaum, M., Le nuove frontiere della giustizia, Editore il Mulino, 2007
Sibilio, M, e Aiello, P., (a cura di), Formazione e ricerca per una didattica inclusiva, Franco Angeli, 2015