Intervista a Davide Tamagnini

Come è nata l’idea dei colori al posto dei voti? Come hanno reagito bambini e genitori?

Spesso mi trovo a parlare di questo, a spiegare come ho fatto a togliere i voti dalla pagella: secondo me è l’ultima cosa da fare. La valutazione è un po’ lo specchio di come gli insegnanti pensano l’apprendimento. Allora il punto di partenza dovrebbe essere quello di lavorare diversamente, modificare quella didattica trasmissiva e libresca che ancora è rilevante nella scuola primaria e partire dall’esperienza. Praticando questo approccio all’apprendimento è diventato evidente che per i voti non c’era più posto, che era necessario un modello di valutazione più coerente e attento alle competenze in gioco, qualcosa che tentasse di descrivere i percorsi dei bambini.

Così abbiamo approntato 2 strumenti:

  1. Le lettere ai bambini, a metà di ogni quadrimestre, con le quali raccontiamo il nostro punto di vista. Da quest’anno abbiamo chiesto anche alle famiglie di scrivere ai bambini una lettera (ed è stata la prima volta che tutti i genitori hanno fatto il compito!);
  2. Una tabella di monitoraggio degli apprendimenti che bambini, famiglie e insegnanti compilano una volta al quadrimestre con 3 indicatori: verde, le cose vanno bene, il percorso è sereno o arrivato a compimento; giallo: il percorso non è concluso, c’è qualche tentennamento; rosso: ci sono delle difficoltà, c’è bisogno di fermarsi a pensare ad un cambiamento, è una richiesta d’aiuto. In questo l’autovalutazione dei bambini è un aspetto fondamentale al quale fin dalla prima è stato dedicato del tempo.

Queste cose cucite insieme vanno a formare la nostra pagella, alla quale bambini insegnanti hanno la possibilità di aggiungere un ultimo aspetto che hanno piacere di sottolineare.

I bambini sono cresciuti dentro questo sistema perché è dalla prima che lavoriamo con questi strumenti, mi pare che abbiano preso seriamente la cosa e che vivano il momento della valutazione con molta serenità, senza ansie da prestazione e invidie da competizione, dando ad esso il valore che deve avere: un feedback sul proprio percorso di crescita.

Ci sono autori nel panorama pedagogico a cui ti ispiri?

Tanti, contemporanei e non, ma anche “non autori”. Mi limito ad accennare qualcosa su questi ultimi. Innanzitutto i mie studenti della formazione professionale, dove ho insegnato per dieci anni; loro mi hanno dato una spinta e una direzione: la scuola non poteva più essere come quella che avevano frequentato loro da piccoli, un luogo che li aveva considerati alla stregua di veri e propri “scarti”. In secondo luogo i miei figli perché la relazione con loro è stata anche una fondamentale e densa esperienza di comprensione dei bisogni dei bambini e delle forme che i diversi rapporti con loro potevano determinare. Finirei con Don Gino Piccio, di Ottiglio, un piccolo paese nel Monferrato, è stata una figura che, come essere umano prima e come maestro poi, mi ha molto segnato. Non solo perché mi avvicinò alla pedagogia di Paulo Freire, ma per avermi fatto capire il valore della testimonianza, la bellezza della creatività delle nostre mani, l’importanza del sorriso e, soprattutto, l’importanza di innamorarsi degli altri se con loro si vuole crescere e tentare di compiere un cammino storico in cui ritrovare la nostra comune umanità e scoprire se stessi.

Quando hai iniziato a sperimentare quest’approccio educativo-didattico, ti saresti aspettato tutti i risultati positivi che hai avuto?

In questi anni la mia proposta di scuola si è continuamente trasformata. La rapidità con cui tutto è iniziato (le 24 ore dalla nomina su questa classe, che accompagno da ormai quattro anni, al mio primo giorno di scuola) non mi ha permesso di immaginare altro se non di cercare di realizzare quella scuola che mi era stata indicata: un luogo comunitario in cui ciascuno studente avrebbe trovato le risposte ai suoi bisogni di apprendimento. I risultati raggiunti finora sono tanti, positivi e negativi, ma i fallimenti hanno avuto un ruolo importante: mi hanno aiutato a reimpostare le attività, a riformulare le proposte, sapendo che potevo trovare le forze anche dai successi raggiunti.

 

Di cosa hanno davvero bisogno i bambini?

Davvero… non lo so. Il mio punto di vista è che hanno bisogno innanzitutto di essere considerati persone latori di pensieri, desideri e bisogni propri della loro età (questi ultimi troppo spesso non stimati). E che tutto ciò possa essere condiviso con i loro pari e con adulti capaci di ascolto. Come ogni persona, dunque, hanno bisogno di sentirsi accolti, aiutati, limitati… in una parola direi amati. In risposta a chi riempie la loro vita di oggetti ed episodicità, dico che, secondo me, i bambini hanno bisogno di poche cose e di molte relazioni stabili capaci di strutturare una cornice in cui possano sperimentare il proprio crescere e stupirsi per ogni scoperta che si disvela ad ogni passo. Una cultura di questo tipo, capace di considerare i più piccoli, sarebbe semplicemente una cultura più umana.

Di cosa ha davvero bisogno la scuola italiana oggi? Credi che il tuo approccio educativo-didattico possa cambiare la scuola che, attualmente, si basa sul sistema del “voto”?

Se il “non-voto” sarà il grimaldello per scardinare il sistema scuola oggi così diffuso, ben venga. Ma se si togliessero i voti dalla scuola, senza cambiare tutto il resto, sarebbe un cambiamento che non modificherebbe la sostanza (purtroppo un’abitudine popolare in Italia!). La scuola italiana ha bisogno – questo forse lo so! – di insegnanti competenti, motivati e felici, che abbiano consapevolezza del peso che le relazioni e le relative dinamiche hanno nel facilitare od ostacolare la crescita di una persona, di ogni persona.