Un educatore racconta la sua esperienza nella progettualità educativa per la lotta all’ AIDS

Sono Mirko ho 31 anni e sono un educatore socio- pedagogico. Sono nato a Bari dove ho vissuto fino a 23 anni,  poi mi sono trasferito  in Lombardia per motivi di lavoro.  Mi sono laureato nel 2008  in “Scienze dell’educazione” ( indirizzo  Educatore professionale nel campo del disagio minorile, devianza e marginalità”) presso l’Università degli studi di Bari. Ho svolto la professione di educatore con vari tipi di utenze e servizi sia a Bari che in Lombardia: servizio domiciliare per  minori con situazioni di disagio sociale, comunità penitenziaria, comunità psichiatriche (adulti ed adolescenti), associazione per la lotta all’AIDS.

Attualmente di cosa ti occupi?

Da  quasi sei anni mi occupo di disabilità infantile presso un centro diurno a Milano.

Ritieni che la laurea sia esaustiva nei saperi per preparare alla professione educativa?

Penso che l’Università ti conferisca a tutti gli effetti il titolo ad essere educatore  ma esiste in alcuni casi una mancanza di consapevolezza del ruolo e a mio parere una discrepanza che il mondo accademico non può colmare  fra quello che studi  e quello con cui dovrai confrontarti nella quotidianità. Avrei voluto una maggiore “ esperienza sul campo”, trovare uno spazio dove poter apprendere, crescere, formarmi gradualmente prima di svolgere da “professionista” vero e proprio  il ruolo di educatore, una realtà diversa dal mondo ovattato a cui siamo abituati.  Questo è il motivo principale che mi ha portato a bussare alla porta di una associazione per la lotta all’AIDS “ C.A.M.A” ossia la sede regionale della Lila (Lega Italiana lotta Aids) a Bari dove ho fatto l’educatore volontario  dal 2007 al 2010.

Quali attività svolgevi nella associazione?

Ho avuto modo di essere formato ed informato sul tema HIV/AIDS, sulla storia della Lila nazionale e su quella del CAMA. Successivamente ho iniziato con le attività che rientravano nella parte di informazione con i “ banchetti informativi” nei luoghi di aggregazione giovanile locali, pub, discoteca, al cinema, spettacoli musicali, palestre,  feste natalizie, momenti all’Università.

Era necessario avere dimestichezza con la materia, riuscire a discuterne con i passanti condividendo  il  materiale informativo ( opuscoli, brochure)  o  pratico (preservativi ) che offrivamo. Ho avuto modo di  misurare il grado di conoscenza e di pensiero sull’argomento AIDS, sieropositività della gente e riuscire, a volte, ad arricchirlo, altre volte a scardinarlo dai pregiudizi, barriere, tabù che l’argomento comporta (“ la malattia dei gay” ; “solo i tossici hanno l’AIDS”; “ non esiste più l’aids”; “ma se uno con l’aids mi bacia mi infetta?”).  

Hai svolto anche attività con sieropositivi o malati conclamati di AIDS?

Si . L’associazione  aveva due attività frontali e dirette presso il Policlinico di Bari nel reparto di Malattie infettive.

La prima, chiamata “Sportello Day Hospital”, consisteva in un vero e proprio sportello informativo sito all’interno dell’ambulatorio Day Hospital del reparto, ove offrire informazioni ed ascolto a coloro con diagnosi di sieropositività (o per i familiari, amici). L’obiettivo era quello di creare un ponte tra fra servizi sanitari e i servizi che l’Associazione avesse a disposizione (sportello psicologico, gruppo auto aiuto, assistenza sociale per le pratiche di invalidità ed altre, progettualità educative, sportello orienta lavoro…), e di essere un punto di riferimento di confronto, per chi avesse necessità di parlare durante l’attesa di referti, analisi, controlli.

La seconda attività l’ho svolta presso il reparto di Malattie infettive, facendo visita  ai pazienti ricoverati con diagnosi di sieropositività e di malattia conclamata di AIDS, ed offrendo loro anche informazioni relative alla burocrazia che questo percorso comporta.

Portavano i “ segni” (esterni ed interni) della malattia ?

Si. L’AIDS ti debilita nel corpo per le complicanze della malattia e nell’anima per i pregiudizi della gente.

Qual era il rapporto con l’utenza?

Il più delle volte si creavano legami umani molto profondi al di là del rapporto professionale. Questo permetteva di mettere a proprio agio alcuni pazienti in modo che non esitassero  nel chiedere aiuto o informazioni su un servizio. Alcuni pazienti mi hanno raccontato la loro storia, dei rapporti con la famiglia, dei problemi alla scoperta della malattia, la perdita del lavoro, di una vita sociale, la loro solitudine ed emarginazione a causa di  una società non cosi’ tollerante. C’erano anche persone che rifiutavano contatti di qualsiasi tipo, oppure altre che per ragioni di  trattamento farmacologico, risultavano poco inclini alla socializzazione con gli altri.  Era quindi interessante e, allo stesso tempo, non priva di incertezze la relazione educativa che si andava ad instaurare:  progettare educativamente, così come sempre, anche in questo contesto produce complessità.”

Come erano i rapporti con gli altri operatori?

C’era spirito di condivisione delle nostre esperienze, sensazioni, punti di vista in équipe multiprofessionale, perché era utile analizzare le varie angolazioni con le quali ognuno vedeva le situazioni che affrontava, una sorta di  grande palestra dove apprendere, confrontarsi, mettersi in discussione ed avere consapevolezza di sé e della tematica della sieropositività.

Nella tua professione di educatore toccare con mano questi percorsi tortuosi cosa ti ha lasciato?

L’esperienza con le persone sieropositive o malate di AIDS, mi ha dato tanto sia in termini professionali che umanamente.  Ho toccato con mano la sofferenza di quelli che non vogliono lasciare vincere la malattia e ancora di più i pregiudizi della gente. E’ assolutamente vero che esistono ancora distorte informazione sul tema AIDS perché  ancora oggi HIV/AIDS fa rima con essere omosessuale oppure essere tossicodipendente. Ho imparato come calibrare le parole e  fare passi indietro sulle convinzioni che possono essere errate e che la progettazione educativa con  approcci e modalità adeguate ai giovani su un tema importantissimo come questo può essere una prima vittoria per combattere l’AIDS.

Ti sei occupato anche di progetti educativi nelle scuole sul tema AIDS?

Si, in parallelo con l’attività informativa, ho partecipato a progetti formativi nelle scuole superiori che miravano a diffondere una corretta consapevolezza dell’AIDS, dell’essere sieropositivi, delle modalità di contagio, sulla prevenzione. Ho lavorato con l’ambiente classe sui pregiudizi sull’Aids e sulle false credenze attorno a questo tema. A ciò si sono aggiunte iniziative del  Comune di Bari, come  “Discobus” ossia degli autobus che accompagnavano ragazzi di tutte le età partendo da Bari e destinati alle discoteche delle litoranee nord e sud di Bari offrendo  loro alcune informazioni sulle malattie sessualmente trasmissibili, sulla loro prevenzione, sull’abuso di alcool e sostanze.

In futuro se dovessi averne l’opportunità pensi di avere altre esperienze come educatore in strutture/ associazioni che trattano di AIDS e sieropositività?

Sicuramente si. Ad oggi, quando torno nella mia Bari, vado a trovare alcuni degli operatori con cui ho condiviso questa esperienza ed è sempre interessante vedere i cambiamenti e discuterne, o notare anche dei passi indietro; ragion per cui è ancora valido il motto del CAMA :” Dopo 25 anni, c’è ancora bisogno di noi!”

Pur avendo cambiato utenza e progettazioni educative, mi piace condividere questa esperienza proprio perché il lavoro educativo presenta mille sfaccettature e peculiarità che molti nostri colleghi purtroppo non “ vedono” perché relegano l’educatore alla sola mansione di operatore di asilo nido, tralasciando che l’educazione è per tutta la vita. Nonostante ora lavori altrove, ho sempre una spilla col fiocco rosso ( drappo rosso simbolo internazionale lotta all’ AIDS) su una delle felpe che da quasi 10 anni mi va ancora!