Una delle grandi sfide dei professionisti dell’educazione è riuscire a costruire le condizioni per il dialogo e il rispetto fra tutte le persone: la sfida è ancora più ardua quando le persone fanno riferimento a sistemi culturali differenti e quando in mezzo alle relazioni si insinuano i pregiudizi. Infatti, ancora oggi il razzismo è la «malattia sociale più rilevante, quella che rende maggiormente problematici i meccanismi di convivenza delle comunità umane» (Cavalli-Sforza, Padoan, 2013:3). Quali i saperi scientifici a supporto e quali gli strumenti e le azioni propri dell’agire educativo e pedagogico?
L’identità culturale non è genetica
Non c’è nulla di genetico e prestabilito nelle identità etniche e culturali, che hanno origine ecologica: la storia dell’essere umano è la storia di una diaspora che ha portato diversi gruppi ad adattarsi ciascuno ad un habitat differente, sviluppando così peculiarità che sono state modificate e ibridate nelle relazioni (Ceruti, 2018). Le culture sono quindi nate da un mosaico di migrazioni e stratificazioni etniche.
Le “razze” umane? Nessun fondamento scientifico!
Gli studi genetici, storici, paleontologici e antropologici sono concordi nel sostenere che la parola “razza” non identifica nessuna realtà biologica riconoscibile nel DNA della specie umana (Biondi e Rickards, 2012; Barbujani, 2006). La biodiversità, infatti, non è prodotta da differenziazioni razziali ma è la sintesi della mobilità umana e della sua spiccata tendenza a ibridarsi (Barbujani, 2006), tant’è che il DNA può essere definito “cosmopolita” poiché le sue variazioni sono presenti, con frequenze diverse, in tutti i continenti (Barbujani e Cheli, 2008).
Un capro espiatorio:
Il mondo è sempre più complesso e interconnesso: ciò è certamente un’opportunità, ma porta con sé anche aspetti problematici (Portera, 2013; Bocchi e Ceruti, 2004). Uno di questi è che gli individui si sentono spaesati, impauriti e si trovano di fronte a insicurezza e precarietà: da un lato, quindi, individuano nel diverso un capro espiatorio, dall’altro innalzano muri, materiali e non, per proteggere le loro identità, sia personali che comunitarie (Portera, 2013; Bolognesi et al., 2005).
Il concetto di razza persiste oggi, dunque, dal punto di vista sociale e culturale (Bocchi, 2015) a causa dei pregiudizi che si fondono a questa ricerca di un capro espiatorio, strumento utile per spiegare e motivare i problemi e per significare la realtà. Ciò accade perché i pregiudizi non si alimentano di dati storico-scientifici resistendo «anche di fronte a evidenze molto chiare di segno contrario» (Barbujani e Cheli, 2008: 85).
Il ruolo dei professionisti dell’educazione
I professionisti dell’educazione sono chiamati a costruire le condizioni affinché si possano apprendere e affinare competenze sul piano cognitivo, emotivo e relazionale che permettano di imparare a comprendere e a convivere con le differenze (Portera, 2013), qualunque sia il contesto e qualunque sia l’età delle persone con cui lavorano.
L’agire educativo professionale ha dunque il compito di far sì che le persone siano in grado di vivere in questo mondo sempre più complesso, anche attraverso il superamento delle difficoltà di natura educativa, psicologica e sociale che alimentano i pregiudizi.
Non di sola relazione è fatta la professionalità educativa.
Grazie al loro essere professionisti riflessivi (Braga, 2010), il primo grande strumento dei professionisti dell’educazione è la consapevolezza (Braga, 2010) di sé, dei propri stereotipi e modelli di riferimento: tale strumento è fondamentale per far emergere e mettere in discussione ciò di cui si è spesso inconsapevoli.
Un altro strumento è il possedere conoscenze interdisciplinari. Infatti, non di sola relazione è costituita la professionalità educativa (Palmieri e Prada, 2008) che si avvale degli studi, della ricerca e delle conoscenze propri della scienza pedagogica, ovviamente, e anche di altre scienze come l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la storia e il diritto, fondamentali nella costruzione e attuazione di progetti educativi in modo quanto più coerente e attento al ai soggetti in formazione, al contesto e alle sue peculiarità.
Educazione alle differenze: da dove partire?
L’educazione alle differenze è sia trasversale, poiché si occupa di decostruire ciò che è alla base della discriminazione delle diversità di qualunque natura e tipologia, sia intersezionale, poiché è attenta alle modalità con cui queste diversità si intersecano tra loro e nella storia delle persone.
Pertanto, educare alle differenze non è sinonimo di progetti e interventi ad hoc, magari proposti come “scatole” da tenere chiuse e aprire in specifici momenti prestabiliti; è invece un orizzonte di riferimento sempre presente nell’agire professionale quotidiano. Bisogna dunque partire da:
- Linguaggio: inclusivo, non discriminatorio, libero da pregiudizi, che non veicola stereotipi ed evita riferimenti a caratteristiche personali irrilevanti. Un linguaggio positivo in grado di riconoscere e mettere in evidenza le qualità delle persone indipendentemente da genere, orientamento sessuale, disabilità, età, appartenenza a un determinato gruppo sociale e convinzioni religiose o altro.
- Rafforzamento delle identità e creazione di occasioni di confronto: rafforzamento delle identità individuali e di gruppo non per contrapposizione, ma grazie alla comunicazione e allo scambio con le altre identità, che si traduce in un’educazione alla capacità di conoscere, accettare e convivere in modo significativo con il diverso.
- Aiutare a percepirsi e a percepire gli altri come identità multiple (Bocchi, 2015).
- Presa di coscienza della complessità, ma anche della relatività dei punti di vista e, per estensione, della capacità di cambiare il proprio punto di vista, di riflettere su di sé, sugli altri, sui propri stereotipi e pregiudizi.
- Concezione dinamica della cultura che rifugge la chiusura dei soggetti in formazione in una prigione culturale, nonché gli stereotipi e la folklorizzazione.
La lotta al razzismo: una sfida per l’educazione professionale e per i servizi educativi.
I professionisti che si occupano di didattica ed educazione (e, per estensione, i servizi educativi e la scuola) devono tenere in considerazione che ogni divenire umano è uno e molteplice e, dunque, uno dei compiti educativi fondamentali nel tempo della complessità è quello di arricchire le esperienze degli individui sia di possibilità di creazione individuale, sia di possibilità di interazione perché è solo così che possono emergere nuove idee di collettività e di cittadinanza (Ceruti, 2018).
Educare alle differenze significa avere come orizzonte di riferimento l’idea che diversità e pluralismo sono paradigmi dell’identità stessa.
N.B.: al fine di non sovraccaricare la composizione delle frasi, è stato utilizzato il genere maschile per riferirsi indistintamente a individui di genere maschile o femminile.
Chiara Merisio
Bibliografia
Barbujani G. (2006), L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani: Milano.
Barbujani G., e Cheli P. (2008), Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Laterza: Roma-Bari.
Bocchi G. (2015), L’Europa globale. Epistemologie delle identità, Edizione Studium: Roma.
Bocchi G. e Ceruti M. (2004), Educazione e globalizzazione, Cortina: Milano.
Bolognesi I., Di Rienzo A., Lorenzini S. e Pileri A. (2005), Di cultura in culture: esperienze e percorsi interculturali nei Nidi d’Infanzia, Franco Angeli: Milano.
Braga P. (a cura di) (2010), Promuovere consapevolezza. Esperienze di formazione tra ricerca e pratica educativa, Junior.
Cavalli-Sforza L.L. e Padoan D. (2013), Razzismo e noismo. Le declinazioni del noi e l’esclusione dell’altro, Einaudi: Torino.
Ceruti M. (2018), Il tempo della complessità, Cortina: Milano.
Palmieri C., e Prada G. (a cura di) (2008), Non di sola relazione. Per una cura del processo educativo, Mimesis: Milano.
Portera A. (2013), Manuale di pedagogia interculturale: Risposte educative nella società globale, Editori Laterza: Roma.