Possiamo considerare il confine tra normalità e patologia come un sottile filo nel quale cerchiamo di destreggiarci come un equilibrista. E se perdessimo l’equilibrio?
Nel corso degli anni si è cercato di dare definizioni chiare che potessero fungere da bussole orientative per la pratica clinica e per la società, ma tale compito si è rivelato alquanto arduo e complesso in quanto ci si imbatte in dimensioni eterogenee difficili da circoscrivere. Dimensioni quali salute, benessere, normalità, follia e patologia spesso si mescolano in un disordine semantico con il rischio di non raggiungere risultati che godano di chiarezza e validità.
Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con l’espressione salute mentale ci riferisce ad uno stato di benessere emotivo e psicologico attraverso cui l’individuo è in grado di utilizzare le sue capacità cognitive o emozionali.
Tale nozione implica:
-
l’instaurarsi di relazioni interpersonali armoniche;
-
tollerare gli eventi stressanti interni ed esterni;
-
stabilire un idoneo adattamento alla realtà;
-
costruire una funzionalità socio-lavorativa;
-
costruire relazioni affettive stabili.
Tuttavia il concetto di salute è stato nel tempo, indissolubilmente associato a quello di normalità, e dunque sorge spontanea la domanda: cosa si intende per normalità? E quale significato ha invece l’anormalità?
Il concetto di normalità o meglio “norma” è andato a configurarsi come standard che una società deve seguire, un vestito da indossare e di conseguenza un comportamento che vada ad allontanarsi dalle norme imposte da una società è stato nel tempo considerato anormale. Il termine “anormale” significa letteralmente al di fuori della norma, al di fuori di un trend statistico.
Nel corso della storia, infatti, le varie società hanno etichettato la figura dell’anormale, del deviante, del folle, così da giustificare movimenti di repressione o di controllo dell’ordine sociale, (pensiamo all’anormalità degli ebrei dichiarata da Hitler per giustificare l’olocausto) costruendo sistemi e meccanismi di esclusione ed emarginazione di ogni forma di diversità e disadattamento, istituendo talvolta apparati e meccanismi burocratici “normalizzatori” aventi lo scopo di indirizzare verso il flusso del potere vigente.
“La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo e meschino ridicolo degli uomini”. La figura del folle, come delineato da Foucault, ha assunto connotazioni differenti nel corso del tempo; se durante il Medioevo l’essere folle equivaleva ad essere toccati dal demonio successivamente i folli e i malati saranno integrati in un’unica categoria affidata al potere-sapere e a cure specialiste.
Inoltre, bisogna tenere presente che il concetto di anormalità va a mutare nel tempo e da cultura a cultura, assumendo nuove concezioni: ciò che un tempo era considerato inaccettabile oggi diventa consuetudine, ciò che per una società è caratterizzante e peculiare diventa inadattabile in un’altra società. Usi, costumi e standard di comportamento hanno accezioni diverse in paesi ed epoche differenti. Si tratta di un fenomeno variabile in perenne evoluzione generato dal peso dell’esperienza culturale. Proprio come la moda si modifica nel tempo, così anche il concetto di anormalità. Nella cultura islamica, ad esempio, se una donna non avesse il capo coperto sarebbe considerata “violatrice” della normalità presente, dunque perseguibile dalla legge. In alcune religioni induiste, esperienze allucinatorie o di possessione vengono considerate come fattori di maggiore santità, da venerare con riti e divinazioni; al contrario nella società occidentale viene attribuita a tale fenomeni una direzione patologica.
Nel recente tragico passato, la diagnosi psichiatrica ha accompagnato il regime totalitario, in un processo di categorizzazione in riferimento allo status patologico del deviante (come l’omosessualità, la disabilità). Nonostante si sia verificato un miglioramento del ruolo della psichiatria e delle considerazioni della società, questioni dibattute sono presenti anche oggi, ad esempio riguardo le famiglie omogenitoriali, accettate soltanto in alcuni paesi.
Vista dunque tale complessità, quali parametri bisogna utilizzare?
La psichiatria ha cercato di conquistare la chiave di lettura per la comprensione della dimensione patologica utilizzando diversi criteri:
-
Malattia come sofferenza soggettiva: Etimologicamente parlando, il termine malattia rimanda ad una condizione di sofferenza e dolore. Tuttavia tale criterio di morbilità appare debole in quanto alcune condizioni patologiche non rinviano al dolore bensì all’eccitamento come stato prevalente, inoltre la sofferenza soggettiva non necessariamente diventa stato patologico;
-
Malattia come devianza statistica: è normale ciò che risulta maggiormente frequente nella popolazione ( distribuzione gaussiana o normale). Tale criterio appare fragile in quanto una condizione che sia rara non necessariamente va considerata come limite e dunque come potenziale patologia;
-
Malattia come differente fisiologia del cervello e del corpo: presupposto di norma è la funzionalità organica (SNC, sistema endocrino ecc.);
-
Patologia come disfunzione: una condizione patologica deve implicare una diminuzione della funzionalità in uno o più contesti di vita.
L’ultimo criterio di morbilità sembra aver ricevuto maggiori conferme in quanto focalizzando l’attenzione sulla funzionalità dell’individuo si avrà una minore probabilità di incorrere in rischi di giudizio, tuttavia il potere dei pregiudizi culturali e dell’influenza sociale rappresenta un rischio ancora possibile. Per questo, bisogna sempre tenere presente che quando ci si approccia alla patologia, non abbiamo davanti etichette diagnostiche ma persone con determinati fattori di resilienza (intesa come la capacità far fronte positivamente agli eventi traumatici), e fattori di vulnerabilità.
Le statistiche dimostrano inoltre quanto la probabilità di sperimentare alcuni problemi di salute mentale non sia un’eventualità così rara. Il 17,5% delle donne della popolazione statunitense ha sviluppato nel corso della vita disturbi d’ansia, IL 18,5 % disturbi dell’umore, mentre il 9,3 % della percentuale maschile ha sperimentato disturbi dell’abuso di alcol. Notiamo una diversa distribuzione tra genere maschile e femminile, mentre le donne hanno una probabilità doppia di incorrere in disturbi dell’umore, disturbi d’ansia, e tripla per i disturbi alimentari; gli uomini presentano maggior rischio in riferimento ai disturbi dello spettro autistico, e all’abuso di alcol e sostanze psicoattive.
Concludendo possiamo affermare che non esiste una linea rigida di separazione tra tratti patologici e funzionamento normale in quanto entrambi rappresentano gli estremi di un continuum sul quale agiscono molteplici elementi tra cui le risorse psichiche dell’individuo, i fattori ambientali, il substrato genetico e le esperienze relazionali precoci. Quindi quale educazione adottare? Sicuramente un sistema fondato sulla prevenzione e sul dialogo mitigando la tendenza all’esclusione della diversità ed acquisendo la consapevolezza che l’essere umano è caratterizzato da fattori di vulnerabilità e debolezza che tuttavia possono evolversi in elementi di risorsa.
Carmela De Domenico
Bibliografia
Atkinson, W.W.. & Hilgard, E. (2011). Introduzione alla Psicologia, Piccin
Siracusano A. (2014). Manuale di Psichiatria, Il Pensiero Scientifico
Foucault, M. (2014). Storia della follia nell’età classica