Il concetto di comportamento violento può presentare criticità, poiché ci si interessa di condotte che risentono della discrezionalità di chi giudica. È tuttavia comprensibile utilizzare questo tipo di terminologia quando si vogliono indicare quelle forme di tifo aggressivo che sconfinano nell’aggressività socialmente riprovata, ossia considerata da tutti tale.
Anche Il concetto stesso di aggressività è sicuramente complesso, infatti come ricorda Peter Marsh nella sua opera Aggro. The illusion of violence, del 1978, il solo termine presenta nella letteratura ben 250 definizioni. Non esiste quindi un solo unitario modello per definire un comportamento aggressivo, esistono semmai vari comportamenti che si possono definire, caso per caso, aggressivi. Questo perché l’aggressività si manifesta in modi diversi e il suo riconoscimento sociale può far sì che addirittura possa orientarsi in forme ritualizzate (cfr. Salvini, 2004).
Con l’espressione violenza calcistica, nello specifico, si possono identificare due fenomeni ben distinti tra loro:
Da un lato le intemperanze di vario tipo commesse dagli spettatori all’interno degli stadi, dall’altro il teppismo calcistico vero e proprio, quello che in Inghilterra è conosciuto come football hooliganism, che comprende l’ insieme degli atti vandalici e delle aggressioni sistematiche che i gruppi di tifosi compiono ai danni di analoghi avversari sia dentro che fuori gli stadi (cfr. Roversi, 1992). In Italia questo comportamento violento è solitamente associato ai gruppi, per lo più giovanili, di tifosi noti come ultras. Con il termine ultras si definisce gli appartenenti ad una frangia organizzata di tifosi, di una determinata società sportiva, caratterizzati da un forte senso di appartenenza al proprio gruppo e dall’impegno, praticamente quotidiano, nel sostenere la propria squadra, che raggiunge il culmine nel corso delle competizioni sportive con altre squadre.
Naturalmente non bisogna generalizzare, non tutti gli ultras sono vandali, come è inutile specificare che la violenza non sia di certo iniziata con la nascita delle tifoserie organizzate; episodi sporadici venivano regolarmente documentati e commentati nei giornali già negli anni passati, tuttavia è proprio in concomitanza con la fondazione dei primi gruppi ultras che emergono segnali ben visibili di un mutamento nei comportamenti. È noto come la comparsa di questi gruppi abbia introdotto elementi di novità e allo stesso tempo anomali negli stadi italiani: iniziano infatti ad apparire striscioni, fumogeni, trombe e vari strumenti che fino ad allora erano inusuali negli spalti. In secondo luogo hanno inizio, con una frequenza sempre maggiore e crescendo di intensità nel tempo, scontri accesi tra le tifoserie opposte, sia durante che al termine delle partite (cfr. Roversi, 1992). In Italia nello specifico durante la stagione del ’71-72 si registrano violente risse in occasione di Inter-Bologna, Juventus-Torino, Cesena-Foggia, Napoli-Bologna e Milan-Torino; in occasione di Torino-Sampdoria e Roma-Lazio del ’74, si assisterà ad una vera escalation di violenza dove incidenti e le aggressioni si ripeteranno anche fuori dagli stadi secondo uno schema molto simile a quello della guerriglia urbana.
È intorno agli anni Settanta, in pratica, che alle più tradizionali, e forse pacate, forme di violenza calcistica da parte del pubblico, rivolte soprattutto ai calciatori stessi, agli arbitri o agli allenatori, quindi ai protagonisti del calcio giocato, si affianca un nuovo tipo di violenza, più cruenta ed in certi casi programmata che preme fino ad uscire fuori dai “confini naturali” dello stadio (cfr. Roversi, 1992). Sembra essere più di una coincidenza il fatto che proprio in questo periodo nascano i primi gruppi ultras come la Fossa dei leoni (Milan), i Boys (Inter) e i Commandos rossoblù (Bologna). Dopo il 1980, tutte le squadre professioniste di calcio avranno almeno un gruppo ultras e il “modello italiano” si diffonderà in tutto il resto dell’Europa.
Bromberger sfata molti luoghi comuni sul pubblico degli stadi, dichiarando che non si tratta di masse indifferenziate in preda al delirio.
Non avviene nessun fenomeno di regressione a stati arcaici del livello dell’attività psichica delle masse, in cui scompare del tutto il senso di responsabilità cedendo ad istinti che da soli avrebbero tenuto a freno, ma di un gruppo di individui organizzato che esprime e manifesta ciò che lo uniforma all’interno e lo differenzia dall’esterno (cfr. Bromberger, 1999). Come sostiene Calderaro il calcio, in determinati contesti, riesce perfino ad assumere, a livello sia individuale che collettivo, significati che vanno oltre l’ambito sportivo inglobando codici di appartenenza come quello etnico, religioso o politico. Il rettangolo di gioco può diventare un campo di battaglia simbolico e in maniera speculare vengono coinvolti i tifosi sugli spalti che però danno vita ad un campo di battaglia concreto.
L’idea che uno sport svolga una funzione catartica fa ormai parte del senso comune. Secondo alcune teorie psicodinamiche lo spettacolo sportivo consentirebbe al tifoso lo sfogo di emozioni, in particolare dell’aggressività, tramite l’identificarsi con gli atleti e mediante il conflitto simbolico con gli avversari. È noto che i riti sociali, con la loro capacità di coinvolgimento creano una realtà soggettiva che sarebbe inesistente senza di loro. Le persone devono molte delle loro emozioni alle situazioni. Nel tifo ultras ricorrono sistemi di simboli basati prevalentemente su “fede e fedeltà”, ovvero che richiamano a modelli religiosi e militari. Bromberger ritiene infatti che in un incontro sportivo si trovano riuniti tutti gli ingredienti di una cerimonia: fedeli che esprimono il loro fervore (i tifosi), officianti che si incaricano del sacrificio (giocatori e arbitri) e un apparato organizzativo (il club o la federazione stessa) rigorosamente gerarchico (cfr. Bromberger, 1999).
L’atteggiamento ultras sembra sì essere al servizio di chi ricerca una forte eccitazione emotiva, ma soprattutto un modo per compensare bisogni identitari.
Il carattere intrinsecamente antagonistico delle varie tifoserie è una caratteristica rilevante in quanto agisce nel meccanismo di identificazione collettiva. Si presta alla formazione di un “gruppo in” e un “gruppo out”: il senso di appartenenza a un “noi” è rafforzato dalla presenza di un altro gruppo percepito come “loro”, la squadra avversaria. Si vengono così a determinare intensi sentimenti di attaccamento a “gruppi noi” molto definiti e sentimenti di ostilità ugualmente intensi nei confronti di “gruppi loro” altrettanto nettamente definiti (cfr. Flocca). Il tifoso quindi è un soggetto che dirige il proprio comportamento secondo le aspettative del gruppo di appartenenza avendo la possibilità di accedere ad un’identità che va oltre l’identità del singolo attraverso la condivisione di tutte le rappresentazioni che accentuano sia le somiglianze interne (identificazione/integrazione), che le differenze esterne (differenziazione/opposizione).
Chi entra nel ruolo di tifoso ultrà trova un’identità già predisposta con un suo corredo di norme, valori, sanzioni, credenze, ragioni e modelli d’azione. Il tifoso farà sue quelle immagini e quelle regole condivise attraverso cui potrà essere confermato dagli altri (cfr. Salvini, 1988). E’ giusto parlare di costruzione dell’identità del tifoso ultras, soprattutto perché le forme culturali che le tifoserie si tramandano hanno una propria storia, parallela ed autonoma rispetto al calcio come fatto atletico. In pratica in ogni tifoso del gruppo ultrà agisce una memoria transgenerazionale che plasma l’identità del tifoso e la sua modalità di rapportarsi agli eventi calcistici (cfr. Flocca).
In breve il singolo ultras si ritiene:
- parte integrante della squadra. Se questa vince egli se ne attribuisce indiscutibilmente dei meriti alla stregua di un giocatore o di un allenatore;
- capace di esercitare un potere contrattuale nei confronti della società sportiva. Si propone quindi in atti di natura violenta anche con lo scopo di condizionare le scelte societarie della squadra;
- maggiormente coinvolto dallo scontro fisico che dal risultato del match. Difende l’onore del gruppo, attraverso lo scontro verbale e fisico, dagli attacchi delle tifoserie rivali;
- maggiormente interessato al potenziale offensivo del proprio gruppo, fattore che sembra determinare i rapporti di potere con le altre tifoserie, che dalla posizione della propria squadra nella classifica del campionato.
Non è solo la violenza, il teppismo e la repressione, ormai negli anni Duemila a caratterizzare lo scenario delle tifoserie calcistiche italiane.
È in questo periodo che comincia a diffondersi l’uso della rete informatica Internet. Già dalla metà degli anni Novanta assistiamo alla nascita dei primi siti web dedicati che contengono la storia del gruppo, le foto delle curve in festa, forum, chatline e video, Nei siti è facile trovare spazi e articoli nei quali viene esaltata la mistica della violenza, oltre a documenti o racconti, più o meno fantasiosi, di imprese riguardanti scontri con tifoserie avversarie o con le forze dell’ordine. Il web dopotutto rappresenta per gli ultras, anche in questo caso, uno strumento per riconoscersi, per mostrarsi, per incontrarsi e per parlarsi in qualche modo dei temi di loro interesse (cfr. D’Auria, 2009).
Dario Bettati
Bibliografia
Bromberger C., La partita di calcio, Editori Riuniti, 1999
Morris D., La tribù del calcio, Mondatori, Milano,1982
Roversi, A, Calcio, tifo e violenza, Il Mulino, Bologna, 1992
Salvini, A., Il rito aggressivo, dall’aggressività simbolica al comportamento violento: il caso dei tifosi ultras, Giunti, Firenze, 1988
Salvini, A., Ultrà. Psicologia del tifoso, Saggi Giunti, Firenze, 2004
Sitografia
D’Auria, S., (2009), Ultras: analisi globale del fenomeno e delle politiche di contrasto allo stesso in http://www.rassegnapenitenziaria.it
Calabrò, P. (2008), La risposta delle Istituzioni dello Stato e quella del calcio alla violenza negli stadi Le esperienze di altri Paesi, in: http://www.altalex.com;
Flocca, F., Identikit del nuovo ultras, in: http://www.psychomedia.it/pm/human/antrop/flocca.htm