“Che cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so. Se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so più” – Agostino d’Ippona
In un solo secondo, un’ape comune può arrivare a sbattere le ali fino a trecento volte di seguito. Nello stesso arco di tempo il nostro sistema solare percorre circa duecento chilometri lungo la sua orbita attorno al centro della galassia, mentre la Terra ne percorre venti intorno al Sole.
Un secondo è anche il tempo che impiegate a leggere questa frase, se siete degli ottimi lettori; una volta arrivati al punto, il cuore di un colibrì innamorato avrà rintoccato tra i dieci ed i venti battiti, mentre il vostro a malapena un paio. La nostra vita, come quella dell’intero Universo, è scandita dal susseguirsi di una serie infinita di istanti ai quali noi attribuiamo, più o meno consapevolmente, un significato; ma quanto dura, esattamente, un secondo?
Per quanto possa sembrare intuitivamente banale, rispondere a questa domanda potrebbe risultare più complicato di quanto sembri: i fattori in grado di determinare una distorsione del flusso temporale (o della sua percezione) sono molteplici, dallo stato fisico del sistema nel quale ci troviamo, che è una variabile esterna all’osservatore, allo stato emotivo – momentaneo o cronico – di ciascuno di noi, che al contrario rappresenta una variabile interna. Quest’ultimo aspetto risulterà sicuramente più familiare: a tutti noi è capitato, durante una bella serata con gli amici, di perdere di vista l’orologio e di scoprire, con nostra sorpresa, che si era fatto incredibilmente tardi. Quando ci divertiamo, il tempo vola letteralmente via; quando soffriamo, siamo in ansia o abbiamo paura, ogni secondo sembra trascinarsi invece con esasperante lentezza. D’altro canto, questa non è che la generalizzazione della frase che Albert Einstein utilizzò per definire, più di un secolo fa, la sua teoria della relatività generale: «Quando un uomo siede un’ora in compagnia di una bella ragazza, sembra sia passato un minuto. Ma fatelo sedere su una stufa per un minuto e gli sembrerà più lungo di qualsiasi ora. Questa è la relatività».
Attraverso questa efficace semplificazione, Einstein introdusse in fisica il concetto per il quale il flusso temporale non è assoluto ed immutabile, ma risente di una serie di forze presenti nell’Universo alle quali non è, evidentemente, in grado di sottrarsi: su tutte, la forza di gravità. Maggiore è tale forza, infatti, e maggiore è la curvatura risultante nello spaziotempo; in altre parole, corpi celesti che esercitano una forza di gravità maggiore causano una distorsione temporale maggiore, per la quale il tempo rallenta significativamente.
Immaginate lo spaziotempo come un foglio di carta: tendendone le estremità, il foglio risulterà esattamente parallelo al terreno. Se provate a collocare un oggetto non troppo pesante al centro del foglio, questo si incurverà leggermente attorno alla posizione nella quale è stato collocato il peso: tale curvatura rappresenta la distorsione della linea temporale. Provate adesso ad immaginare di posizionare, nel medesimo punto, un oggetto estremamente pesante: il foglio si tenderà così tanto che le due estremità (con un po’ di immaginazione) arriveranno a toccarsi, formando un cilindro; in uno scenario del genere il flusso temporale rallenterebbe a tal punto da risultare, per un osservatore esterno al sistema, completamente fermo!
Le regioni dello spaziotempo nelle quali il campo gravitazionale sviluppato è tale da causare un collasso del flusso temporale sono ben note, non solo agli astrofisici; esistono dei corpi celesti la cui gravità, infatti, è così elevata che nemmeno la luce è in grado di sfuggirvi: non a caso, non potendo essere osservati in alcun modo, queste singolarità sono meglio note con il nome di buchi neri. Sulla soglia dell’orizzonte degli eventi, la superficie limite oltre la quale niente può influenzare ed essere influenzato da un osservatore esterno, la massa del buco nero è tale da ripiegare compleamente lo spaziotempo su se stesso; due gemelli, posti uno sulla Terra ed uno al limite di un buco nero, invecchierebbero a velocità differenti: dopo oltre cinquant’anni il primo apparirebbe come un’uomo di mezza età, mentre il secondo risulterebbe ancora poco più che un neonato. Per lo stesso principio, due orologi posti a diverse altitudine scandiscono il tempo in maniera asimmetrica: un orologio sulla superficie del mare rintoccherà i secondi più lentamente rispetto ad un orologio sulla cima dell’Everest, a causa della differenza di gravità tra i due ambienti.
Il sistema fisico di riferimento, tuttavia, non è l’unico aspetto in grado di interagire con la nostra personale concezione del tempo: sebbene la realtà esterna sia, come abbiamo appena visto, di fondamentale importanza nel determinare la compressione e la dilatazione del flusso temporale, un’alterazione nella percezione del tempo può essere registrata anche a partire dalla realtà interna a ciascuno di noi. Quante volte abbiamo sentito dire dai nostri genitori, o ancora meglio dai nostri nonni, di come il tempo sembri scorrere più velocemente con l’aumentare degli anni?
Lo psicologo americano William James, riprendendo in parte la teoria proporzionale del filosofo Paul Janet, afferma come «La lunghezza apparente di un intervallo in una data epoca della vita di un uomo [sia] proporzionale alla lunghezza totale della vita stessa»: quando invecchiamo, ciascun periodo diviene una porzione sempre più piccola della nostra vita, e questo influenza inevitabilmente il modo in cui noi lo viviamo e percepiamo. Per un neonato una settimana rappresenta una finestra temporale ed esperenziale incredibilmente ampia, proprio a causa della sua giovane età; per ciascuno di noi, al contrario, una settimana è un lasso di tempo talmente poco significativo che, salvo eventi particolarmente rilevanti, sembra scivolare via veloce e silenzioso.
Il neuropsicologo Warren H. Meck, al contrario, ha ricercato la causa di questa graduale accelerazione nelle modificazioni neurochimiche con le quali il nostro sistema cerebrale deve confrontarsi in vecchiaia: la riduzione fisiologica di dopamina che si registra con il sopraggiungere degli anni sembrerebbe causare l’alterazione nei meccanismi di percezione temporale tipica della senescenza.
Anche lo stato emotivo, a prescindere dall’età, sembra influenzare l’esperienza temporale: la noia, il divertimento, il dolore, sono tutti elementi in grado di causare alterazioni non patologiche nella stima di intervalli temporali più o meno lunghi; ma cosa succede quando questa alterazione, che si presenta pressoché quotidianamente nella nostra vita, assume un carattere patologico?
Neppure nel DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders), il manuale diagnostico utilizzato dall’American Psychological Association ormai giunto alla sua quinta edizione, vi è una chiara classificazione dei disturbi del tempo. La maggior parte degli specialisti, comunque, sembra condividere la distinzione tra disturbi del tempo soggettivo (inerenti escusivamente l’esperienza interna) e disturbi del tempo oggettivo (il tempo cronologico indipendente dal sé); in quest’ultima categoria spiccano il disturbo della percezione della durata del tempo e il disorientamento sull’età, condizioni così simili alle alterazioni dello spaziotempo dovute ai campi gravitazionali da oscurare la linea che, almeno per quanto concerne la dimensione temporale, sembra separare il mondo naturale da quello psichico.
L’errata percezione della durata del tempo è una condizione abbastanza frequente nei disturbi dell’umore, in particolare nel disturbo depressivo e nel disturbo maniacale. In pazienti depressi viene infatti frequentemente registrata una diminuzione oggettiva relativa alla stima dello scorrere del tempo, diminuzione che porta tali soggetti a sottostimare il trascorrere di trenta secondi, in media, di sei secondi; per una persona depressa il mondo acquista tremendamente velocità, e la mente si acquieta a tal punto da causare, in tutta risposta, una compressione della percezione temporale.
Nei pazienti maniacali non psicotici (nei quali è mantenuto l’esame di realtà), al contrario, l’eccessiva vitalità e l’irrequietezza incontrollabile comportano una sovrastima del medesimo intervallo; il mondo rallenta, in confronto all’iperattività cerebrale intrinseca della mania, e trenta secondi possono dilatarsi fino ad essere percepiti come quaranta, o persino quarantacinque. Ancora più interessante è la condizione di disorientamento sull’età, riscontrabile in alcune forme organiche quali la sindrome di Korsakoff, o in varie forme psicotiche quali la schizofrenia cronica. In queste condizioni il tempo per i pazienti non subisce nessuna distorsione, ma al contrario si ferma: come sull’orizzonte degli eventi, queste persone sono inevitabilmente intrappolate in un unico, interminabile istante del loro passato mentre il mondo, attorno a loro, procede inesorabile. A prima vista questi pazienti potrebbero essere considerati solo dei nostalgici, ma la realtà è che essi sono confinati nel periodo culturale nel quale hanno sviluppato la malattia: si vestono, parlano, si comportano come era consuetudine all’epoca nella quale si colloca l’esordio del loro disturbo, proprio come se il fluire del tempo avesse perso per loro qualsiasi significato.
Proprio come se, da allora, vivessero inchiodati all’orlo di un buco nero. E per queste persone un secondo, che per ciascuno di noi vale poco meno di un respiro, può assumere il significato di un’intera esistenza.
Bibliografia
Rovelli, C. (2014). Sette brevi lezioni di fisica. Milano, Adelphi.
Oyebode, F. (2008). Sims’ Symptoms in the Mind. Sauders Elsevier.
Warren H. Meck. (1995). “Neuropharmacology of timing and time perception”. In Cognitive Brain Research 3 (1996)
Lennart Tysk (1984), “Time Perception and affective disorders”. In Perceptual and Motor Skills, Vol. 58
O.W. Sacks, (2008), L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi
S.W.Hawking, (2015), La grande storia del tempo, Bur
Sitografia