Con l’espressione Nimby (acronimo di Not in my backyard, non nel mio giardino) si indicano tutte le opposizioni locali a opere sgradite quali, ad esempio, i celebri movimenti “No Tav”, “No Ponte”, “No Dal Molin” e così via.
Nei primi anni ’70, si sviluppò un “approccio tecnocratico”, il quale assunse che i rapporti tra i proponenti e oppositori non possano che essere basati su radicali conflitti: in primo luogo, le opere in questione devono esser costruite ad ogni costo per il bene comune, anteponendo così gli interessi della collettività a quelli degli oppositori; in secondo luogo, solo i proponenti vengono considerati in grado di quantificare con precisione i costi e i benefici delle opere.
Tale modello pone la comunità locale di fronte alla scelta che tipo di vittima essere: accettare l’opera, o opporsi e pagarne le conseguenze in termini di stigmatizzazione e di «vendette» istituzionali (Wolsink, 2006).
Si parlò di “Sindrome Nimby” riferita ai movimenti di opposizione le cui caratteristiche erano:
- Atteggiamenti egoistici nei confronti dell’opera;
- Carenza di informazioni sull’opera e sulle sue conseguenze;
- Sfiducia nei proponenti e nei tecnici;
- Preoccupazione eccessiva nei confronti dei rischi derivanti dalla costruzione dell’opera.
In realtà ad oggi è stato empiricamente dimostrato che l’opposizione non dipende dalla distanza territoriale (Hampton, 1996), e come non ci siano effettive differenze di conoscenza tra favorevoli e contrari; invece, capita spesso che i movimenti Nimby facciano ricorso ad esperti indipendenti di provata reputazione professionale. Se la “Sindrome Nimby” è una costruzione sociale emersa dai conflitti tra le parti, quali fattori incitano la protesta?
Il “vissuto d’ingiustizia” è tra i più rilevati, e cioè l’impressione degli abitanti locali di essere poco rispettati dai proponenti, percezione che si accentua in funzione della distanza politica e sociale che intercorre tra le parti. Inoltre, una particolare valenza psicologia possiede anche la “minaccia all’identità”: quando un luogo è interessato da un cambiamento, la trasformazione non riguarda solo la dimensione fisica ma anche quella psicologica poiché, ci dice Tajfel, parte della nostra identità deriva dal senso di appartenenza al luogo in cui risediamo, dal significato che esso assume e dalla valutazione che ne diamo (cfr. Devine-Wright, 2009). Infine, annoveriamo anche “il percepirsi esposti al rischio”, ovvero la grande preoccupazione per la salute pubblica e per i rischi ambientali.
Cercando di individuare un tipo di approccio mirato a superare la frattura sociale caratterizzante i conflitti Nimby, da qualche anno la letteratura psicosociale parla di Approcci Consensuali, fondati sul coinvolgimento diretto dei cittadini in cui emergono tre prole chiave: fiducia, equità e partecipazione pubblica. Come dimostra l’esperimento di Kurt Lewin, se dal punto di vista psicologico la partecipazione fa sì che le persone sentano di poter esercitare un controllo sui processi e sul proprio ambiente di vita, da un punto di vista più generale il coinvolgimento nelle decisioni pubbliche potrebbe risultare un modo per migliorare efficacemente la conciliazione persona-contesto. Chiaramente, si tratta di procedimenti costosi in termini di denaro e di tempo, ma l’alternativa, come è evidente, è spesso fallimentare.
Infine, citando Serge Moscovici (1984), “viviamo in una società pensante costituita da individui e gruppi che producono pensiero autonomo, proprie rappresentazioni dei problemi e proprie soluzioni” ed è in questa logica che vanno letti i conflitti Nimby, evitando cosi di ricorrere a modelli normativi di comportamento e ragionamenti in termini di razionalità/irrazionalità.
Bibliografia
Divine-Wright, P., (2009), “Rethinking NIMBYism: The role of place attachment and place identity in explaining place-protective action”, in Journal of Community & Applied Social Psychology, 19
Roccato, M., Mannarini, T., Non nel mio giardino. Prendere sul serio i movimenti Nimby, Il Mulino, Bologna 2012