Nel 1920 Freud venne chiamato come esperto di fronte a una commissione di inchiesta impegnata nel giudicare l’operato del famoso psichiatra Wagner-Jauregg, accusato di aver applicato l’elettroshock a soldati affetti da nevrosi di guerra, considerati codardi e simulatori. Freud pur criticando aspramente i presupposti terapeutici del trattamento, giustificava in parte l’operato dello psichiatra austriaco.
Secondo il padre dellapsicanalisi la causa sottostante alle nevrosi di guerra era da ricercarsi in «un’inclinazione inconscia del soldato a sottrarsi alle richieste pericolosissime o rivoltanti per i suoi sentimenti, postegli dal servizio militare attivo» [Freud 1920]. Per Freud i soldati, solo in minima parte simulatori, si erano rifugiati nella malattia per sfuggire alla condizioni stressanti della guerra. I mezzi utilizzati da Wagner-Jauregg erano tali da indurli in una “seconda fuga”: dalla malattia alla riabilitazione del servizio militare. Essendo il fine non la guarigione in sé, ma la riabilitazione Freud arriva a sostenere che in quelle circostanza la medicina si poneva «al servizio di intenzioni che sono estranee alla sua natura». In questo articolo parleremo dell’uso politico delle discipline mediche e psicologiche, ovvero di quando si pongono come fonte di legittimazione e stigmatizzazione di alcuni comportamenti a discapito di altri (comportamenti pro bellici vs simulatori).
Il binomio simulazione-nevrosi di guerra divenne presto un topic nell’ambito della letteratura psichiatrica: Brissaud parlava di sinistrosi, un’affezione tipica delle classi lavoratrici, che insieme alle nevrosi di guerra non nascondevano altro che un desiderio di indennizzo. Dubois invece operò proprio un confronto tra delinquenti e nevrotici di guerra: entrambi antisociali anche se con i secondi si sarebbe dovuti essere un po’ meno severi. Difficile non notare in questo periodo un uso sociale della diagnosi: mentre le classi più elevate godevano di diagnosi e trattamenti rispettivamente meno stigmatizzanti e più moderati, le classi più basse ricevano per lo più diagnosi severe e trattamenti molto meno “confortevoli” (cfr. Beneduce 2010).
Molto spesso le scienze della cura dimenticano di essere loro stesse immerse in un campo di forze, in un rapporto di poteri e finiscono per occultare o peggio giustificare gli stessi rapporti di forza che concorrono alla produzione delle malattie. Il contesto coloniale rimane certamente un modello esemplificativo perfetto per una riflessione di questo genere. Per Fanon la psichiatria istituzionale nel contesto coloniale diviene un mezzo conforme all’ordine coloniale. L’etnopsichiatra martinicano sottolinea la difficoltà di utilizzare il TAT, un test proiettivo, nelle donne mussulmane: benché con le donne europee tale test avesse portato a risultati soddisfacenti si mostrava incompatibile con soggetti di altre culture essendo principalmente pensato per un contesto occidentale. I test quindi sarebbero dovuti essere situazionali, come anche le diagnosi. Il termine situazionale sottolinea l’importanza di tenere presenti caratteristiche culturali specifiche affinché una diagnosi e un test siano sensibili. Se la medicina e la psicologia da una parte erano in connubio con il potere coloniale ed erano percepite come un mezzo al servizio della polizia coloniale, dall’ altra erano una sua continuazione a livello culturale, ponendosi in contrapposizione con i saperi medici locali, anche se in definitiva non vennero mai sostituiti. Per Fanon nel Magreb vi erano a livello simbolico tutti i requisiti per «la messa in funzione di un’ “assistenza psichiatrica”».
Un ultima considerazione infine va fatta verso la totale cecità dei saperi medico-psicologici sull’effetto devastante che un fenomeno storico come la colonizzazione ebbe sulla psiche dei colonizzati. Non cogliendo la portata trasformativa di tale evento sulla struttura psichica, sociale e politica dei colonizzati, gli studiosi occidentali cercarono altrove, nell’Edipo, nei substrati neurologici o in altre istanze psichiche, la causa di comportamenti, malattie e atteggiamenti nel colonizzato. Ogni analisi che non tenesse debitamente conto dell’importanza della dimensione storica, occultava però un fatto, ovvero che il malgascio, l’algerino, il colonizzato esistevano con l’europeo: l’oggetto dell’analisi era stato già trasformato (dalla colonizzazione) e tale portata trasformativa pregiudicava qualunque tipo di riflessione disincarnata sui colonizzati, ossia qualunque riflessione che non tenesse conto del dominio europeo e dei suoi effetti (cfr. Fanon 1952). L’analisi storica della situazione psichica determinata dalla violenza coloniale effettuata da Fanon, ha illuminato certamente i paradossi e i compromessi, le ripercussioni del dominio nel tessuto sociale e nell’immaginario fantasmagorico dei colonizzati, ma anche le lacune e la povertà dei saperi medico-psicologici, nonché le loro tacite convivenze con il potere politico.
Questo breve excursus storico per sottolineare come sia importante interrogare, oggi più che mai, i saperi psichiatrici e psicologici, i loro discorsi, le verità che in questi discorsi vengono fabbricate, affinché nuove rimozioni e nuove complicità raggiungano lo stato di veglia.
Andrea Selva
Bibliografia
Beneduce R., (2010), Archeologie del trauma. Un antropologia del sottosuolo, Editori Laterza, Roma-Bari
Fanon F., (1952), Peau Neur, Masques blanche, Seuil, Paris
Fanon F., (1962), I dannati della terra, Einaudi, Torino
Fanon F., (2001), Pour la revolution africaine, La découverte, Paris, 2001
Freud S., (1976), “Promemoria sul trattamento elettrico dei nevrotici di guerra”, In Opere, Bollati Boringhieri, vol. IX
Semenzato M., (2012), La follia dei dannati. Frantz Fanon e la psichiatria tra potere e dolore, cura e rivoluzone,
Ipoc, Milano