Il mondo invisibile dei senzatetto

 

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“Barboni”. È con questo termine, dal connotato negativo, che spesso ci si riferisce ai senzatetto, abitanti del nostro mondo che sembrano appartenere ad un altro. A loro sono rivolti rapidi sguardi, un’infinità di invasivi sguardi che li deumanizzano, proprio come oggetti da vetrina. Vengono osservati, ma restano invisibili.

Una realtà tanto drammatica ci spinge a mettere in atto delle modalità difensive per prenderne le distanze e sentirci diversi. È così che sviluppiamo particolari pregiudizi sugli homeless: “se lo merita perché è un fannullone” (contrapposto al mito tanto diffuso del grande uomo che “partendo dal nulla si fa da sé”), “non si conforma alla società ma sceglie di girare il mondo, perché è assetato di conoscenza” (idea di vagabondaggio dai retaggi romantici), oppure il diametralmente opposto “è una vittima della società”. Ma la realtà è ben più complessa.

I senza fissa dimora presentano una grande varietà di percorsi esistenziali.

Essi finiscono in strada a causa di fattori intrinseci, come un disturbo mentale o fisico, ed estrinseci e contingenti, come ad esempio la perdita di lavoro. È bene specificare, però, che tali cause sono fortemente interconnesse fra loro: la perdita di lavoro può portare a maturare un disturbo mentale o fisico, oppure la comparsa di una malattia può portare alla perdita di lavoro. Inoltre, è possibile definire i fattori individuali che, secondo diversi autori, rendono un individuo ad alto rischio: il genere maschile (probabilmente perché meno tutelati dalle strutture assistenziali), l’abuso da sostanze (più alto rispetto alla popolazione generale), essere single, avere una famiglia di origine disagiata e caotica, essere stranieri (che subiscono il cosiddetto “shock culturale”), essere omosessuali e bisessuali maschi e la presenza di una patologia psichiatrica.

I fattori individuali sopra descritti sono necessari ma non sufficienti per descrivere il percorso che porta un uomo nella condizione di homelessness: anche i fattori ambientali hanno un ruolo rilevante in questo processo. Brandom sintetizza in quattro macro-aree le teorie che cercano di spiegare i motivi per cui una persona diventa homeless.

Prese singolarmente, non sono in grado di analizzare la complessità del fenomeno, ma sono in grado di delinearlo se considerate concatenate:

  • spiegazione di natura sociale: la condizione di senza fissa dimora è causata da un fallimento delle politiche sociali;
  • spiegazione di natura psicologica: la persona senza fissa dimora ha scarse capacità di adattamento e gravi problemi nell’instaurare o mantenere legami sociali;
  • spiegazione di natura individuale: i senza fissa dimora hanno particolari caratteristiche individuali, come l’appartenenza etnica, l’orientamento sessuale ecc.;
  • spiegazione di natura ideologica: la persona senza dimora ha scelto di non conformarsi e di non seguire i valori dominanti.

In accordo con Brandom, Susser (1989) ritiene che alla base del processo di emarginazione sociale ci sia una situazione di equilibrio precario in cui un individuo vive, reso ancor più fragile dalla povertà, che favorisce il presentarsi di stili di vita devianti a causa dell’esclusione di opportunità lavorative e della scarsità di servizi, e le malattie, le quali contribuiscono al raggiungimento della condizione di homelessness; una particolare influenza ha la schizofrenia (cfr. Herman, 1998), che riduce drasticamente le competenze sociali dell’individuo e danneggia le sue relazioni affettive.

In tale processo di emarginazione, la perdita della casa risulta il passaggio cruciale. Molto spesso ai senza fissa dimora è negata la possibilità di mantenere la propria identità anagrafica: ciò comporta la perdita di una casa e il diritto ad averne una. Non avere una casa è destabilizzante, e spinge l’individuo all’esclusione sociale; senza una casa risulta impossibile mantenere un lavoro, delle relazioni affettive e un’adeguata igiene personale. L’impossibilità di avere uno spazio privato comporta una profonda ristrutturazione del sé, perché tale condizione non permette di separare il sé privato dal mondo se non con la pelle: «Non avendo che la pelle come separazione fra pubblico e privato, essi possono nascondersi occultando ciò che di ultimo e prezioso possiedono, la pelle, dato che gli è stata negata ogni tipo di dimensione privata. La sporcizia diventa una maschera. Il vestito non ha solo un’utilità materiale, non serve solo a coprire il freddo, altrimenti non ci spiegheremmo la ragione della sovrabbondanza di cappotti su un corpo nudo con 40 gradi all’ombra». [Bonadonna, 2001]

Vivere uno spazio pubblico significa vivere in uno stato di continua allerta.

I cicli del sonno non sono rispettati e ciò ha un effetto negativo sull’equilibrio psichico e la salute mentale. La strada, pertanto, non solo incrementa lo stato di ansia e disagio rispetto alla popolazione generale, ma anche il manifestarsi di un grave disturbo psichico: la schizofrenia è presente nel 30% dei soggetti; ad essa segue la depressione (associata a sua volta ad alti tassi di suicidio) e i disturbi bipolari; sono molto presenti i disturbi d’ansia, le fobie, gli attacchi di panico; il 50% di homeless presentano disturbi di personalità, e alla stessa percentuale presentano tassi di alcolismo (cfr. D’Avanzo), con un alto tasso di compresenza nello stesso soggetto di diverse patologie.

Il processo di esclusione sociale non è solo subito dai senza dimora, ma è anche agito: le persone senza fissa dimora elaborano strategie attive, equilibrate e razionali di adattamento alla città vissuta sulla strada. Modificano il proprio corpo, ristrutturano il proprio sé e le abitudini culturali, violano con consapevolezza molti dei tabù fondanti la nostra cultura, formando una vera e propria sottocultura. Ed è per tale ragione che risulta complicato proporre un’assistenza adeguata ai senza fissa dimora: da un lato, gli homeless presentano un pensiero ossessivo di estraniamento dalla realtà, rifiutano l’assistenza per ragioni ideologiche, psicologiche o igieniche dei servizi a loro disposizione. Dall’altro lato, il pensiero sotteso all’accoglienza considera chi si trova in uno stato di miseria di accettare qualsiasi cosa, ma ciò è un pregiudizio: esistono persone diverse con storie e bisogni diversi, e per questa ragione le macro risposte – grandi mense, grandi dormitori per i senzatetto – sono spersonalizzanti, etichettanti ed emarginanti. L’utilizzo di case famiglia, invece, permette il recupero della persona perché, favorendo l’autonomia e la ripartizione di compiti fra coinquilini, rafforza le potenzialità dell’individuo.

In conclusione, è possibile affermare che le opinioni maggiormente diffuse sui senza fissa dimora sono pregiudizi riduttivi, fuorvianti e non in grado di cogliere la vera natura del fenomeno. Ridurre i pregiudizi sui senzatetto è di fondamentale importanza, se si pensa che i pregiudizi costruiscono un potente stigma sociale, una prigione invisibile che favorisce il processo di esclusione dalla società: con il passare del tempo, il senzatetto si convince di essere un fallito, un debole, un pazzo, convinzione continuamente confermata dall’ambiente esterno. Per proporre una proposta assistenziale adeguata, e per non contribuire ad alimentare lo stigma, è bene esserne consapevoli.

Maria Grazia CultreraImmagine1-300x289

Info

 

 

Bibliografia

Bonadonna, F. (2001). Il nome del barbone. Vite di strada e povertà estreme in Italia. DeriveApprodi, Roma.

Brandom D., Wells K., Francis C., Ramsey E. (1980). The survivors. Routhledge, London.

D’Avanzo B. (1999). La psichiatria di fronte agli homeless. Approcci, problemi e linee interpretative nella letteratura scientifica, in Lettera. Percorsi bibliografici in psichiatria. Istituto di ricerche “Mario Negri”, Milano.

Herman, D., Susser E., Jandorf L., Lavelle J. E Bromet E. J. (1998). “Homelessness among individuals with psychotic disorders hospitalized for the first time: findings from the Suffolk Country Mental Health Project”. In American Journal of Psychiatry.

Susser F. (1989) “Problems in epidemiologic method in assessing the type and extent of mental illness among homeless adults”. In Psychatric Services.

Valtolina, G. (2003) Fuori dai margini. Esclusione sociale e disagio psichico. FrancoAngeli, Milano.

3 Replies to “Il mondo invisibile dei senzatetto”

  1. L’articolo è importante perché aiuta a capire i complessi problemi che si creano intorno alla figura dei senza tetto. A questo punto bisogna fare qualcosa di concreto per aiutare queste persone. Una soluzione può essere la casa-famiglia e i motivi sono ben puntualizzati nell’articolo. Ma mettere su una casa- famiglia e gestirla (operatori, psicologi, addetti alla cucina e alle pulizie, ecc.) costa. Bisogna quindi creare una organizzazione finanziata in parte dai Comuni, in parte dallo stato e dai cittadini tramite l’erogazione del 5 per mille ed altro. Qualsiasi progetto per aiutare il prossimo richiede denaro . Per procurarselo bisogna imitare le organizzazioni religiose che in fatto di assistenza la sanno lunga.

  2. Sig. Della Porta, e’ vero cio’ che lei dice, magari, una casa famiglia, dove i senzatetto ospiti della strutura, chi e’ in grado di farlo, occuparsi loro direttamente delle pulizie, cucina, spesa, ecc.

  3. un bellissimo articolo….meno male non è stato rimosso….è un periodo che mi chiedo di questa realtà parallela ma presente…che aumenta giorno per giorno….

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