“Questa è la terra di Puglia, e del Salento, spaccata dal sole e dalla solitudine dove l’uomo cammina sulla creta, scricchiola e si corrode ogni pietra da secoli, gli animali battono con gli zoccoli un tempo che ha invisibili mutamenti. È terra di veleni, qui esce nella calura il ragno della follia e dell’assenza che si insinua nel sangue di corpi delicati” – Salvatore Quasimodo
Quando ci si reca in luoghi come il Salento, nel Meridione in generale, è impossibile non imbattersi in quella che è la musica tradizionale per eccellenza di quei luoghi: la Tarantella. Essa, soprattutto in estate, risuona nell’aria, viene fischiettata da giovani e anziani che musicano anche le ore di silenzio della giornata. Ovviamente è onnipresente nei vari festival e nelle feste locali. La Tarantella va oltre l’essere una semplice forma di intrattenimento, è qualcosa di più di una melodia che ti entra in testa; rappresenta un forte segno distintivo, un tratto identificativo del Sud, uno degli elementi che più mette in mostra gli aspetti della cultura di un popolo tramite rituali e credenze in grado di evidenziare i tratti distintivi della sua maniera di vedere il mondo. Infatti, gli studi storici e antropologici ci mostrano come in passato venisse impiegata addirittura nei rituali di guarigione, anzi come fosse “il” rituale di guarigione per eccellenza. Un farmaco composto da melodie e ritmo, ma per guarire da cosa?
Il fenomeno del Tarantismo è iscritto in un sistema ideologico complesso e antico.
In base a credenze ampiamente diffuse in antichità nell’area mediterranea ed in epoca più recente nell’ Italia meridionale, sarebbe provocato dal morso di un ragno e si manifesta attraverso sintomi come offuscamento dello stato di coscienza, depressione e varie turbe emotive. Al manifestarsi dei tipici sintomi del “male pugliese” (citando l’opera di G. Mora del 1998) in un soggetto, prevalentemente in giovani donne nubili in “età da matrimonio” (come specifica de Martino: tra l’inizio della pubertà e la fine dell’età evolutiva) si procedeva con l’organizzazione di un rito terapeutico domiciliare durante il quale, avvalendosi di uno specifico apparato ritmico, musicale, coreutico e cromatico, si rievocava la storia del morso e si riusciva a ristabilire la guarigione di una persona sofferente.
Il rituale si svolgeva prevalentemente in ambiente domestico, quindi solitamente a casa del “paziente”. Viene steso un telo bianco a terra e sparsi vari oggetti come corde, foglie e fiori nel tentativo di ricreare l’habitat del ragno. Subito dopo i musicisti si dispongono intorno alla tarantata ed iniziano a suonare, attingendo da un vasto repertorio musicale allo scopo di identificare il ragno. Si otterrà una reazione con un preciso brano, in grado di richiamare attraverso una sorta di adorcismo il ragno colpevole del malessere. «La tarantata si fa ragno» [Quasimodo, in Mingozzi, 1961] e inizia una danza convulsiva che ne ripropone le movenze. La danza si trasforma poi in una vera lotta, infatti si può osservare come essa mimi l’atto di calpestare il ragno. «Danzando il tarantato fa di se stesso un ritmo-simbolo generativo» [De Giorgi, 2004:48].
Durante il rituale la tarantata dialoga con San Paolo, ritenuto il santo protettore dei “pizzicati”, attraverso una sua immagine, chiedendogli spesso se il rituale possa concludersi o se debba continuare. Conclusasi la “fase domiciliare” del rito la tarantata ottiene una sospensione momentanea delle sue sofferenze. La guarigione definitiva, che sancirà l’efficacia del rito, restituendo sollievo per il resto dell’anno, avviene nel momento in cui le ammalate si recano nella chiesa di San Paolo in Galatina, dove stavolta, in uno scenario pubblico, esse ricadono nuovamente nello stato di tarantate, senza però l’ausilio della musica ad eccezione di un ostinato ritmico che può provenire da un tamburello o dal battito delle mani, il tutto accompagnato da canti eseguiti nella tipica modalità contadina, quindi con voce tesa e registro acuto. Con l’inizio delle preghiere il male inizia finalmente la sua parabola discendente.
Il rituale è riassumibile in poche fasi:
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La prima fase “diagnostica” dove viene individuato, attraverso la musica, il ragno.
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La seconda fase più complessa che prevede la preparazione della tarantata che viene lavata (purificata) e collocata sopra il telo poggiato precedentemente in terra e i musicisti che iniziano a suonare stavolta senza interruzioni. In questa fase il compito più importante è svolto dal tamburello, il cui ostinato richiama il battito del cuore che dapprima caotico torna regolare. Il fattore ritmico è determinante, infatti i cambiamenti accadono tutti all’interno del ritmo, che conferisce un ordine armonico al caos della psiche in crisi (cfr. De Giorgi, 2004). Durante la seconda fase inoltre osserviamo inoltre il dialogo col santo.
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Infine la terza fase, quella conclusiva, che consiste nel recarsi nella chiesa di San Paolo, dove in pratica si ripete il rito, stavolta in una chiave pubblica.
Già nel ‘600 i gesuiti si erano imbattuti nel Tarantismo e attraverso i lavori di Epifanio Ferdinando e Giorgio Baglivi si era inaugurata una letteratura di carattere medico del fenomeno, studiato soprattutto come malattia psichica o come il vero risultato del morso del ragno. Fu il medico napoletano Francesco Serao, intorno alla metà nel ‘700 ad inaugurare l’atteggiamento scientifico, definendolo come un aspetto degenerativo delle classi subalterne pugliesi che tentavano di risolvere le proprie difficoltà attraverso il climax del Tarantismo. Tuttavia prima di lui Baglivi propose l’ipotesi di un Tarantismo “spurio” dove donne frustate probabilmente approfittavano della “scusa” del morso per dar sfogo al loro bisogno di eccitazione (cfr. Mora, 1998). Ciò che accumunava i due autori era comunque il fatto che entrambi avessero notato come attraverso il rituale venissero espressi conflitti emozionali. Il Tarantismo come tale, afferma De Giorgi, «è esattamente il contrario di una malattia, è in altri termini, una terapia che interviene solo dopo l’insorgenza di problemi psico-sociali. Si configura come rito medicinale […] nel quale la terapia vera e propria coincide con l’ascolto partecipe […]» [De Giorgi, 2004:35].
Nel 1959 il celebre antropologo italiano Ernesto de Martino svolse una ricerca in terra salentina divenuta di fondamentale importanza per i successivi studi sull’argomento. Lo scopo era verificare la sua “ipotesi culturale” che rompesse con quelle precedenti. Per l’autore il fenomeno era il risultato di un condizionamento storico-culturale e a favore di questa visione individua degli indici specifici:
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Galatina era immune perché ritenuta protetta dai santi Pietro e Paolo. Nell’ipotesi che la causa dei sintomi potesse ricondursi esclusivamente al morso del ragno diveniva un mistero il perché solo in quei luoghi non avesse effetto.
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Il protrarsi negli anni della malattia, alleviata solo dai rituali domiciliari e dalle visite alla cappella di Galatina non poteva aver nessun logico e ragionevole rapporto col morso. La ripetizione del male faceva piuttosto pensare ad un condizionamento culturale e al rispetto di una tradizione. Inoltre le crisi diventavano più frequenti con l’avvicinarsi della festa dedicata ai santi protettori. «tutto accadeva come se l’influenza cristiana avesse cercato di piegare un fenomeno pagano al proprio calendario religioso[…]» [de Martino, 2011:68].
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I sintomi si manifestavano in maniera squilibrata rispetto alla differenza di sesso. Sembrava che il ragno preferisse le donne collocate in un determinato range di età.
De Martino giunse alla conclusione che il Tarantismo non era riducibile all’ avvelenamento da morso, ma allo stesso tempo non era indipendente da esso.
Il morso era un’importante condizione per la genesi del fenomeno, pertanto come lui stesso afferma «il simbolismo della taranta si era reso autonomo, nel corso di una certa storia culturale e religiosa, dai reali fenomeni di latrodectismo relativamente frequenti durante i lavori agricoli estivi» [de Martino, 2011:73-74], tale autonomia assumeva due aspetti: o la crisi diventava semplicemente l’occasione per far defluire altre forme di avvelenamento simbolico, come traumi o frustrazioni, oppure in occasione di determinati momenti critici insorgeva l’avvelenamento, utilizzando il modello dei sintomi da morso come elemento rappresentativo delle varie crisi da controllare ritualmente (cfr. de Martino, 1961). Il fenomeno osservato dallo studioso appariva nel ’59 già ormai disgregato e logorato, la stessa pratica dell’esorcismo coreutico-musicale era ormai caduta in disuso. La causa era probabilmente di tipo socio-economico, ovvero il costo dei musicisti e la stessa difficoltà di reperirne. Tuttavia uno dei motivi può essere anche il fatto che ormai la figura di San Paolo aveva polarizzato su di sé l’attenzione popolare stornandola dal sistema culturale legato al Tarantismo. Il tentativo di assorbimento cattolico era giunto, in quegli anni, a metà dell’opera, privando il fenomeno di tutta la simbologia esorcistica e rilegandolo alla cappella (cfr. de Martino, 1961).
Durante gli anni ’70 e ’80 inizia un’opera di revisione critica degli scritti demartiniani che coinvolge studiosi del calibro di Gilbert Rouget e Georges Lapasside che introducono alla già ricca “ricetta del Tarantismo” i concetti di possessione e di trance, in quanto stato modificato di coscienza favorito dal ritmo ossessivo della musica che diventa una ripetizione ipnotica in grado di rompere le difese della personalità portando ad uno stato, appunto, di coscienza alterata (cfr. De Giorgi, 2004).
Quello del Tarantismo è un esempio di rituale estremamente indagato, sondato ed analizzato, che appunto per la sua complessità e grazie anche all’interesse che hanno saputo suscitare su di esso numerosi studiosi nel corso del tempo ancora oggi si trova al centro di dibattiti accademici, oltre che apparire sotto altre forme nelle piazze, nelle feste o nelle notti salentine di mezza estate.
Dario Bettati
Bibliografia
De Martino, E., La terra del rimorso, Il Saggiatore, 2011, (ed. orig. 1961)
Mitri, G., L., La terra del rimosso. Tarantismo e medicina nell’area gelatinose. In Bollettino storico di Terra d’Otranto, num. 5, 1995
Mora, G., Il male pugliese. Etnopsichiatria storica del tarantismo, Bossa Editrice, Nardò, 1998
Nocera, M., Il morso del ragno, Capone editore, 2013
De Giorgi, P., L’estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo, 2004
Sitografia
https://it.wikipedia.org/wiki/Tarantismo
http://www.ilsuonodelsalento.it/tarantismo.htm
http://ilmanifesto.info/il-ragno-del-salento/
Videografia
La Taranta, G. Mingozzi, 1961
Meloterapia del Tarantismo, Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, 1959
San Paolo e la Tarantola, E. Winsplere, S. Kresmer, 1990
Video di riferimento
La Taranta, G. Mingozzi, 1961 – [Estratto. Adattamento e rimontaggio: Antonio Severino]