Per meglio comprendere come l’antropologia si avvicini progressivamente ad una tematica sulla quale produrre una riflessione, è necessario tenere sempre presente la sempre attuale riflessione di Claude Lévi-Strauss che, nell’opera Il crudo e il cotto (1964), sosteneva che «lo scienziato non è l’uomo che fornisce vere risposte, è invece colui che pone le vere domande».
Alla luce di questo presupposto, appare più chiaro che come quel lungo processo di scrittura, che vede l’antropologo misurarsi con un caso di ricerca, sia spesso il luogo in cui le domande aumentano, e numerose criticità vengono messe in campo per raggiungere una conoscenza non tendente alla semplificazione ma comprensiva di una complessità che spesso viene data per scontata in virtù della tendenza a definire la realtà in base a delle categorie stabili, controllabili e senza variabili.
Il tema legato alla categoria medica del G.I.D. ci permette di mostrare nello specifico questa “capacità” dell’Antropologia di aumentare le domande per giungere ad una visione più ampia, attenta alle diversità delle esperienze esistenziali,in poche parole, una prospettiva umanistica.
Ma entriamo nel merito.
Già nel 1936 Marcell Mauss con il suo saggio Le tecniche del corpo mostrò come ogni attitudine e ogni gesto che caratterizza la nostra identità all’interno di un contesto sociale sia culturalmente indirizzata. Secondo l’antropologo francese quindi la “costruzione” del proprio corpo e l’identificazione con esso non è semplicemente un dato naturale ma bensì un processo in fieri (in continua elaborazione) nel quale la componente biologica interagisce continuamente con quei fattori di esperienza individuale e collettiva che l’uomo fa grazie alla cultura di cui il contesto, in cui egli vive, si è dotato.
Azioni e comportamenti che determinano, ad esempio, l’essere maschio o femmina possono apparire naturali ma sono anche il frutto di indirizzi culturali vigenti in un gruppo, per rispondere a quella esigenza classificatoria di ciò che è normale e ciò che è deviante, del maschile e del femminile, della sessualità e del genere. Partendo da questo presupposto, Mauss dimostra che non sempre c’è una sovrapposizione netta tra sesso, genere e sessualità. Ciò che invece è comune in ogni società è il corredo culturale di norme che plasmano comportamenti sessuali e ruoli di genere, il sex-gender-system, come lo definì Gayle Rubin nel saggio Lo scambio delle donne (1976). Fa quindi riflettere la proposta, avanzata nell’ottobre del 2013 dall’ Ospedale Careggi (Firenze), di avviare anche in Italia il protocollo per la somministrazione di ormoni che bloccano la crescita nei bambini fra gli 11 e 12 anni “affetti” dal cosiddetto «disturbo d’identità di genere».
Il G.i.d. (Gender identity disorder), con questa sigla è catalogato nel DSM – 5 (Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali), è descritto come una sorta di disallineamento che l’individuo avverte tra la sua identità sessuale e la sua identità di genere. Il protocollo di “cura” sperimentato ed applicato già dal 2011 dalla clinica Tavistock (Londra) prevede un trattamento ormonale che, interrompendo la crescita biologica in età puberale, concederebbe ai “bambini confusi” più tempo per decidere “cosa essere” da adulti. L’iter di cura punterebbe ad “annullare” lo stato di “transessualità giovanile” arrestando la maturazione sessuale biologica e concedendo al “paziente” il tempo di scegliere se essere uomo o donna. Una libertà che sembra tanto assomigliare a un’imposizione.
Dal punto di vista biomedicale, sembra che la categoria del G.I.D. sia più una questione di potere (medico) agente sul corpo di individui che, per essere inseriti nella società occidentale con il crisma della “normalità”, hanno il “dovere” di allineare la loro identità sessuale (biologica) con la loro identità di genere.
Ma bloccare la crescita biologica di una persona non equivale a relegarla in un “limbo di indefinitezza”? Non equivale a rinnegare anche culturalmente la transessualità e quindi la condizione stessa dell’individuo che la vive? Costituisce certamente un disagio fortissimo sentirsi imprigionati in un corpo che non si sente come proprio. Al disagio non se ne aggiunge altro nel momento in cui è lo stesso contesto, con i suoi istituti, a non accettare il portatore di quella condizione, sospendendone, addirittura, la crescita?
È davvero rallentando i processi biologici che si risolve il problema e si “reintegra” l’individuo?
Numerose etnografie sembrano mostrare il contrario. L’identità di genere è il frutto della “sedimentazione culturale”(oltre che fisica) prodottasi nel corso dell’esperienza soggettiva e sociale. È anche la collettività, determinando i caratteri delle figure che si muovono sul “palcoscenico sociale”, a generare inclusione o esclusione.
Come sostiene Giovanni Pizza, «anche il genere è una tecnica del corpo, una performance appresa attraverso la mimèsi e l’azione pedagogica dei processi di educazione e modellamento culturale del corpo messi in atto dall’ambiente sociale e culturale» [Pizza, 2005:32], un ambiente nel quale i fattori dell’esperienza individuali e collettivi debbono concorrere, insieme alla crescita biologica, a determinare gli orientamenti di un individuo. In India, ad esempio, la transessualità è “culturalmente accettata”, integrata con delle figure sociali specifiche che rivestono un ruolo ben preciso e collettivamente riconosciuto. Serena Nanda, nelle sue ricerche, racconta come gli Hijra (uomini che diventano donne tramite pratiche chirurgiche) e i Sadhin (donne biologiche che rinunciano al matrimonio e si comportano come uomini) siano il paradigma del “terzo e quarto genere” nella società indiana (cfr. Bisogno, Ronzon, 2007).
Alla luce di tutto ciò, il “protocollo Tavistock” non sembra assomigliare più a una “prigione”, dove per uscire si è “costretti” ad identificarsi, per essere contemplati in quella dicotomica “idea sociale occidentale” che sembra non ammettere un “terzo sesso”?
È forse la conseguenza di quella “pretesa biomedicale” di voler risolvere disagi e malattie agendo spesso in maniera forte solo sugli aspetti biologici di un «corpo pensante»? (cfr. Scheper-Hughes, 1987). Sono spesso le istituzioni medico-giuridiche , secondo Foucault, impegnate in quel processo omologante che tende a coprire ogni sfumatura o segno d’incertezza per mettere in chiaro il sesso dell’individuo e svelare le “verità” corporee di ogni soggetto (cfr. Foucault, 1997). Il corpo, in questo caso, non sembra quasi obbligato a scegliere da che parte stare, ad “essere coerente”, nei suoi aspetti materiali ed immateriali, ai canoni di sesso, genere e sessualità che sembrano rappresentare la vera ossessione dell’Occidente?
Come detto in apertura, non è facile dare risposte, né è obiettivo primario dell’antropologia fornirne ma, forse, demoltiplicare le domande sull’apparente unicità di un tema, può permettere di cogliere meglio gli aspetti di una questione umana che, in quanto tale, non è riducibile a regole fisse o a “soluzioni” applicabili per tutti.
Bibliografia
Bisogno F. e Ronzon F., Altri generi. Inversioni e variazioni di genere tra culture, Il dito e la luna, Milano, 2007
Foucault, M., Il vero sesso, in Michel Foucault e il divenire donna, Mimesis, Milano, 1997
Levy-Strauss, C., Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1966
Mauss, M., Le tecniche del corpo, 1936
Pizza, G., Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma, 2005
Rubin, G., Lo scambio delle donne, 1976
Scheper-Hughes N. e Lock M., “The Mindful Body. A prolegomenon to Future Work”, in Anthropology, Medical Anthropological Quarterly, New Series, 1, 1987
Sitografia
Alcune notizie sul Gid e sulla legislazione italiana : https://it.wikipedia.org/wiki/Disturbo_dell%27identit%C3%A0_di_genere