Nel paese dove indossare un costume da mascotte da donna senza velo può costarvi l’arresto, nel 2004 è stato avviato un programma di riabilitazione per terroristi che prevede una serie di comfort e privilegi che dovrebbero ricondurli sulla “retta via”. Se da un lato ciò dimostra un approccio alternativo al loro trattamento, unico a livello globale, dall’altro fa emergere le “segrete” e discusse simpatie del governo saudita nei confronti degli affiliati di Al-Qaeda e dello Stato Islamico.
L’Arabia Saudita, nel cuore del medio oriente, è uno dei paesi più impenetrabili alla stampa straniera, dominato, tra l’altro, da una rigida interpretazione della legge coranica (la sharia è il termine utilizzato per indicare l’insieme di norme contenute nel Corano. Le stesse possono ricevere un’interpretazione diversa in base al contesto sociale e/o religioso). Nonostante ciò, è considerato uno dei più stabili alleati per l’Occidente dell’area mediorientale. Proprio la vicinanza con il mondo occidentale è stata alla base di una serie di attacchi terroristici agli inizi degli anni 2000, i quali hanno spinto le autorità a rivedere il proprio approccio nei confronti di quegli individui accusati di partecipazione ad operazioni di terrorismo. Non bisogna dimenticare che, inoltre, lo stesso Osama Bin Laden aveva cittadinanza saudita, così come 15 dei 19 attentatori protagonisti degli attacchi dell’11 settembre 2001, dimostrando come il paese fosse terra fertile per l’estremismo islamico.
Si è dato così il via ad un programma di dialogo e riabilitazione che, secondo la visione ufficiale, attraverso una serie di consulenze psicologiche e religiose dovrebbe de-radicalizzare gli estremisti, in ciò che è stata definita una “guerra di idee”. Il processo prevede che il detenuto venga ospitato in prigioni di massima sicurezza pensate appositamente per tale categoria di criminali ed, in cui, il lavoro terapeutico svolto da figure professionali, quali psicologi e ministri di culto, dovrebbe condurre ad un cambiamento dalla posizione inizialmente adottata dall’estremista. Una volta scontata la sentenza, il processo di riabilitazione prosegue in appositi (e lussuosi) centri dove viene meno lo status di detenuto.
A circa 40 km a sud di Riyadd, capitale del regno, si trova la prigione di massima sicurezza di Al-Ha’ir, in cui vengono ospitati approssimativamente 1700 individui. Qui l’accesso alla stampa straniera sembra essere meno problematico che in altre aree dello stato, anche al fine di mostrare al mondo l’impegno delle autorità nella lotta al terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, la realtà che ci si presenta dinanzi si mostra molto più indulgente di quanto ci si aspetterebbe da una prigione di un paese in cui la pena di morte può avvenire ancora per decapitazione.
L’edificio, infatti, sebbene all’esterno sia circondato da grandi ed alte mura fortificate, all’interno sembra rivelare una realtà tutt’altro che dura, almeno per quanto riguarda l’ala destinata a persone coinvolte in azioni di terrorismo. In ogni cella sono ospitati un massimo di due individui, quando la media nazionale tende ad essere di 8-10 prigionieri. Ogni stanza inoltre è dotata di scrivania, tv, wc, docce, lavabo e finestre. La televisione serve anche da strumento per la trasmissione di programmi educativi pensati appositamente per gli “ospiti”.
All’interno della stessa ala vi è un ampio spazio, che può ospitar fino a 50 persone, destinato alle discussioni di gruppo o a piccole conferenze. Vi possono partecipare fisicamente solo quei detenuti per i quali non sussiste un pericolo di radicalizzazione derivante dall’interazione con gli altri. Quello che più stupisce, soprattutto in virtù del fatto che si tratta di una prigione di massima sicurezza, è la presenza di ampie camere coniugali dove i condannati possono trascorrere diverse ore, almeno una volta al mese, con la propria consorte. Il coinvolgimento della famiglia è infatti ritenuto fondamentale nel processo di riabilitazione. È anche presente un piccolo “albergo” dove i prigionieri più virtuosi possono passare del tempo con l’intera famiglia, solitamente da uno a tre giorni al mese.
Si prevedono, inoltre, una serie di attività ricreative e formative, tra le quali l’art therapy, lo sport e lo studio di varie discipline, quali Cultura Islamica, Sociologia, Psicologia e Diritto Islamico. Una delle caratteristiche più rilevanti di tale processo è che le varie attività ed il contenuto delle lezioni vengono studiati ed adattati in funzione delle modalità di reclutamento dei gruppi più radicali.
La scelta di un approccio soft emerge dalla consapevolezza che, spesso e volentieri, le prigioni si sono convertite in centri di incubazione per ideologie estremiste. Non bisogna dimenticare che, oggi, molti dei combattenti dell’autoproclamatosi Stato Islamico hanno vissuto un processo di radicalizzazione nei penitenziari iracheni durante il periodo di invasione statunitense. Secondo i dati, inoltre, la probabilità che (potenziali) terroristi continuino a perseguire la propria causa anche dopo un periodo di detenzione è molto alta se non si interviene a livello psico-ideologico. Il tasso di successo del modello saudita sembra essere soddisfacente, attestandosi, secondo le fonti ufficiali[1], ad un “solo” 13% di recidività al termine del periodo di riabilitazione[2]
Sebbene l’Arabia Saudita si sia dimostrata capace di incidere in maggior misura sui processi socio-psicologici che sono alla base della radicalizzazione, la prigione di Al-Ha’ir può essere vista come un tentativo di convincere il mondo occidentale ad un impegno “sincero e profondo” nella lotta al terrorismo islamico. Non bisogna inoltre dimenticare che il confine tra terrorista e dissidente politico è molto labile in una monarchia assoluta quale quella saudita. Il governo locale è stato spesso accusato di essere ideologicamente vicino ai movimenti sunniti più estremisti. Il fondamentalista islamico, in taluni casi, è considerato più pericoloso in quanto oppositore al regime, piuttosto che per l’ideologia religiosa di cui si fa portatore. Tuttavia, l’approccio innovativo potrebbe e dovrebbe essere emulato anche in altri contesti se questo comporta un minor tasso di recidività.
Michael Ruggeri
Bibliografia:
Porges, M. (2014) Saudi Arabia’s ‘Soft’ Approach to Terrorist Prisoners: A Model for Others? Chap. 12 in Prisons, Terrorism and Extremism: Critical Issues in Management, Radicalisation and Reform. Oxon, UK: Routledge.
[1] Come dichiarato dal Ministro dell’Interno saudita Mansour Al-Turki in un’intervista del 27/04/2015 rilasciata alla Associated Press.
[2] I dati forniti dalle autorità saudite tendono a cambiare spesso e si basano, nella gran parte dei casi, su interviste rilasciate a giornalisti stranieri. Si va da un tasso di successo del 100% (secondo alcune autorità) ad uno dell’87%.