Immagine tratta da Asahi Shimbun
Le tensioni tra Giappone e Repubblica Popolare Cinese si rifanno a precise ragioni storiche (le guerre sino-giapponesi, l’invasione della Manciuria e l’espansionismo militare giapponese), alla perenne competizione per la supremazia nel sud-est asiatico e ai non trascurabili interessi economici in gioco. Al centro di questo confronto vi è la disputa per il possesso delle isole nel Mar Cinese Orientale. Nonostante le ostilità si siano recentemente smorzate, grazie all’impegno politico preso da entrambi i Paesi per evitare l’escalation del conflitto, l’ipotesi di un confronto armato non è da escludere visto l’aumento della spesa destinata alla difesa e le tensioni derivanti dalle continue esercitazioni militari al largo delle isole. Quant’è elevato dunque il rischio che questo contenzioso si trasformi in un conflitto militare?
Innanzitutto, è utile inquadrare storicamente la disputa. Le isole, chiamate Senkaku in Giappone e Diaoyu in Cina, sono situate nel Mar Cinese Orientale, a nord-est di Taiwan. Esse sono amministrate dalla prefettura di Okinawa, in quanto parte del territorio dalla fine della prima guerra sino-giapponese e in seguito alla firma del trattato di Shimonoseki nel 1895. Stando alla versione giapponese dunque, le isole furono incorporate come parte del territorio nazionale in osservanza del diritto internazionale relativo all’occupazione di terrae nullius (letteralmente “terre che non appartengono a nessuno”). La rivendicazione cinese, iniziata negli anni Settanta, si fonda invece sull’assunto che le isole fossero già parte della Cina a partire dalla dinastia Ming (1368-1644) e che dunque l’occupazione giapponese sia avvenuta in contrasto con le norme di diritto internazionale vigenti. La controversia sulla sovranità delle isole è però diventata una questione politicamente rilevante soltanto dai primi anni 2000 e in seguito è stata ulteriormente esacerbata nel 2012 a causa della decisione del governo giapponese di comprare alcune delle isole contese da privati cittadini giapponesi. Tre delle cinque isole furono infatti acquistate da un privato cittadino nel 1932 e solo recentemente rivendute al Giappone, che ha visto in questa possibilità quella di occupare effettivamente il territorio conteso e di mettere così fine alle rivendicazioni da parte della Cina (cfr. Bastianelli, 2014).
Al di là delle motivazioni di carattere storico-formale, vi sono gli interessi economici legati alle Zone economiche esclusive (ZEE) delle isole. Stando al diritto internazionale, ogni Stato ha accesso allo sfruttamento economico esclusivo delle risorse sottomarine comprese entro le 200 miglia nautiche dalle proprie coste. Secondo gli analisti, le ZEE delle isole conterrebbero ingenti quantità di gas e petrolio, facendo di queste zone il punto cruciale della controversia. In particolare, è stimato che oltre alle risorse legate alla pesca, nel Mar Cinese orientale siano presenti almeno 200 milioni di barili di petrolio (20 milioni nelle sole isole Senkaku) e almeno 1 trilione di piedi cubi di gas naturale (cfr. US Energy Information Administration, 2014). Questo sembra dunque spiegare perché i governi sono disposti ad accettare un deterioramento momentaneo dei loro scambi commerciali pur di assicurarsi l’accesso alle risorse naturali delle isole sul lungo periodo.
Ma arriviamo all’aspetto strategico. Secondo alcuni studiosi le isole sarebbero un indicatore degli equilibri di potenza in Asia orientale. La questione presenta infatti alcuni risvolti strategici sugli equilibri politico-militari della regione nel lungo periodo. Per il governo nipponico si tratta innanzitutto di dimostrare l’integrità territoriale e il potere politico di fronte all’imponente ascesa cinese e di proteggere i propri cittadini residenti in Cina, oggetto di attacco in seguito a un crescente sentimento di nazionalismo anti-giapponese tra la popolazione (cfr. Dian, 2012). Per Pechino, invece, si tratta prevalentemente di mantenere l’ordine del Partito-Stato e la sua credibilità, basandosi sui “tre interessi fondamentali” elaborati dal Partito Comunista. Questi interessi irrinunciabili sono: mantenere l’assetto politico del Partito-Stato, tutelare l’unità e la sicurezza dello Stato e, in ultimo, mantenere le condizioni che agevolano lo sviluppo economico del Paese. Il principio di realizzazione dell’unità nazionale è tenuto in particolare considerazione da Pechino in quanto è stato inevitabilmente minato dal distacco di Taiwan in seguito alla rivoluzione comunista nella Cina continentale. Inoltre, Pechino ha interesse a testare il nuovo assetto della sua politica di sicurezza. La Repubblica Popolare Cinese si è infatti impegnata, negli ultimi anni, a migliorare le sue capacità militari, in particolare le proprie forze navali. Infatti, se nel dicembre 2013 il Giappone ha annunciato un aumento del 5% delle sue spese militari per il periodo 2014-2019, la Cina ha risposto annunciando un aumento del 12,2% rispetto all’anno precedente delle risorse destinate al settore della difesa, raggiungendo i 132 miliardi di dollari solo per il 2014 (cfr. Bautzmann, 2016).
In ultimo, va ricordato il ruolo giocato dagli Stati Uniti nel conflitto. In occasione del dialogo economico e di sicurezza con il Giappone, il Presidente statunitense Barack Obama ha affermato che Washington sarebbe pronta ad intervenire in favore di Tokyo se la disputa sulle isole Senkaku/Diaoyu dovesse sfociare in un conflitto militare. Non è un segreto infatti che gli Stati Uniti stiano cercando di contenere l’espansione cinese nella Regione, né che essi costituiscano il principale, storico, alleato per il Giappone. Inoltre, va ricordato il trattato di reciproca assistenza e cooperazione stipulato tra Tokyo e Washington nel 1960. Infatti, stando all’articolo 5 del trattato, nel caso in cui un attacco militare venisse sferrato contro il Giappone, gli Stati Uniti sarebbero vincolati ad intervenire in sua difesa.
Alla luce di queste considerazioni, è probabile che il ruolo giocato dagli Stati Uniti e i reciproci interessi (legati soprattutto all’economia e al commercio) di Cina e Giappone impediranno a questa disputa territoriale di sfociare in un conflitto militare. Ciononostante, resta il fatto che i due Paesi hanno investito, e continuano a farlo, un importante capitale politico e militare sulla crisi delle isole e cedere terreno in favore dell’avversario a questo punto comprometterebbe la loro credibilità interna. Si può quindi altresì dedurre che nel breve periodo non si troverà una soluzione alla disputa. Il contenzioso resta dunque tale, continuando a creare tensioni nei rapporti politici ed economici tra Cina e Giappone.
Studentessa presso il Master in International Public Affairs alla Luiss di Roma
Laureata in Scienze Internazionali presso l’Università degli studi di torino e Sciences Po Bordeaux (FR)
Informazioni, contatti e articoli dell’autrice a questo link.
Bibliografia
Bastianelli, R. (2014), La disputa tra Cina Popolare e Giappone: origini storiche e scenari attuali, in “Informazioni della Difesa, Panorama Internazionale”, pp. 46-57
Bautzmann, A. (2016), La course aux armements en Asie-Pacifique, in Atlas Géopolitique Mondial 2016, pp. 96,97
Dian, M. (2012), Le isole Senkaku o Diaoyu come termometro degli equilibri in Asia orientale, in Limes- Rivista Italiana di Geopolitica, n. 6/12 “Usa contro Cina”
Sitografia
U.S. Energy Information Administration (2014), Report on East China Sea, http://www.eia.gov/beta/international/analysis_includes/regions_of_interest/East_China_Sea/east_china_sea.pdf
Global Security, http://www.globalsecurity.org/military/world/war/senkaku.htm, ultima consultazione 15/03/2016