Uno sguardo sul nostro mondo: l’ipocrisia organizzata della politica internazionale

Leviatano di Thomas Hobbes frontespizio superiore (modificato)

Leviatano di Thomas Hobbes frontespizio superiore (modificato)

Leggendo le news, tra le varie proclamazioni di “Stato Islamico”, la deflagrazione dello Stato libico e il nuovo capitolo nei rapporti Cina-Taiwan, potrebbe capitare di chiederci: viviamo realmente in un mondo composto da Stati? Se è così, sapremmo definire i tratti salienti dell’istituzione politica che ci appare come la più congeniale e tipica?

È comune ritenere che il panorama internazionale odierno, pressoché interamente composto da Stati, sia un agglomerato di istituzioni politiche ben definite, mutevoli al loro interno (per regime politico, composizione etnica, valori, economia ecc.) ma sostanzialmente simili e coerenti nei loro fondamenti strutturali. Come ci insegnano le classiche nozioni di storia politica, a partire dalla fine delle guerre religiose europee (pace di Westphalia 1648) il formarsi di una moderna dimensione di sovranità è ciò che distingue maggiormente lo stato moderno da istituzioni pre-moderne quali gli imperi, gli assetti tribali o le città-stato.

È perciò piuttosto chiaro e condiviso che cosa lo Stato non sia, ma qualora si provi a dare una definizione positiva di che cosa sia effettivamente la sovranità, la materia diventa particolarmente problematica e controversa, sia a livello teorico che in termini di applicazione giuridica del riconoscimento (ad esempio, qualora una nuova entità politica reclami indipendenza). In tale contesto complesso, la tendenza è quella di assumere lo Stato sovrano come una particolare “specie storica” con precise basi comuni e una certa prolungata fortuna (soprattutto in Occidente dalla pace di Westphalia alla caduta del muro di Berlino, secondo alcuni, come ad esempio Robert Cooper in “The postmodern State”).

Siamo spesso realmente convinti della validità di questo approccio, tanto che quando avvenimenti bellici e guerre civili disgregano entità statali quali, solo recentemente, Siria e Libia, tendiamo a ravvisarvi casi isolati di distorsione e frammentazione (o, secondo altri, un segno di cedimento universale dell’istituzione-Stato, un tempo ben definita).

L’esclusione di attori esterni dalle strutture di autorità interne è sicuramente un principio presente tanto nell’immaginario comune quanto nel discorso politico. Ma l’essenza e la prassi dello Stato si esauriscono nel principio di “superiorem non recognoscens”? Se così fosse, un’entità non riconosciuta e, soprattutto, internazionalmente condannata come Daesh (non a caso spesso definito come “l’autoproclamato” Stato Islamico), qualora conquistasse militarmente un’autonomia incontrastata sull’area della Siria-Levante, sarebbe de facto uno Stato? Se davvero pensassimo in questo modo, si porrebbe la questione se non riconoscere de jure l’Isis sia lo strumento sanzionatorio più adatto da parte della comunità internazionale. E ancora, se l’autonomia effettiva fosse un criterio esaustivo e sufficiente, non sarebbero da ritenere “ex-sovrani” gli Stati membri dell’Unione Europea, in quanto esposti volontariamente a una giurisdizione superiore, in particolare quella della Corte di Giustizia Europea?

Questi quesiti sono volutamente provocatori e paradossali, ma è interessante chiederci se la scienza politica possa aiutarci a negare questi dubbi in maniera convincente.

L’ipocrisia organizzata degli Stati

Presentiamo qui la proposta di un autore che deve la propria fama proprio alla sua brillante analisi di questa complessa e stratificata materia, Stephen D. Krasner. Comunemente definito “realista neoclassico” nel suo approccio alla disciplina, ma apprezzato trasversalmente per questo suo contributo in materia di istituzioni, nel suo celebre “Sovereignty: Organized Hypocrisy” sottolinea come vi siano molteplici concetti normativi di sovranità. 1.Sovranità interna: gli Stati dovrebbero avere un’autorità organizzata sul proprio territorio e esercitarvi un controllo effettivo. 2.Sovranità westphaliana: l’organizzazione politica statale dovrebbe essere basata sull’esclusione di attori esterni dalle strutture di autorità interne. 3. Sovranità internazionale legale: è il mutuo riconoscimento tra autorità sovrane, che dovrebbe avvenire solamente tra entità territoriali dotate di indipendenza giuridica.

Spesso, però, nella realtà queste diverse dimensioni non coincidono: la tradizionale autonomia manca a Stati riconosciuti e legittimati (secondo Krasner addirittura ⅓ degli Stati universalmente riconosciuti mancherebbe di sovranità interna o di quella westphaliana), mentre al contrario alcune entità che possiedono controllo effettivo del proprio territorio sono totalmente o massicciamente sprovviste di riconoscimento internazionale (alcuni esempi, assolutamente eterogenei tra loro per molteplici aspetti, sono Abkhazia, Cipro del Nord, Kosovo, Kurdistan, Somaliland, Sud Ossezia, Taiwan e Transnistria, e l’elenco potrebbe essere molto più lungo).

Nella prospettiva di Krasner questo accade perchè vi sono tre attributi che rendono (e hanno reso sempre nella storia) qualsiasi sistema internazionale tanto contraddittorio da violare le sue stesse “norme”: 1 complessità (i leaders politici hanno svariati interessi materiali e ideali, che si combinano a un ambiente di imperfetta informazione); 2 molteplicità e contraddittorietà delle norme (esempio più eclatante, la recente norma della “Responsability to Protect” è in opposizione alla raccomandazione di non ingerenza negli affari interni di Stati sovrani); 3 carattere strumentale dei principi di autorità internazionali (sono, cioè, rilevanti ma solo nella misura in cui possono servire a legittimare gli interessi dei leaders politici). In sintesi, le definizioni per capire il mondo degli Stati esistono e hanno un certo ruolo effettivo nel plasmarlo, ma sono spesso molteplici e in conflitto, perciò vengono dominate da aspetti contingenti e di interesse.

La proposta di Krasner non è consolatoria né incontestabile, ma può forse aiutarci a capire l’eterogeneità e le distorsioni che hanno sempre caratterizzato il panorama  internazionale: riflettere su una definizione apparentemente semplice come quella di Stato ci permette di evitare alcuni stereotipi che sono facile oggetto di strumentalizzazione. Giusto per citare un esempio: i paesi europei, riconoscendo frettolosamente le loro ex colonie negli anni ‘50, agivano realmente in accordo alle norme di effettiva autonomia e alla definizione di Stato? Oppure, più semplicemente, rispondevano ai propri interessi di mantenere un interlocutore nell’area, una volta abbandonato il troppo costoso dominio diretto?

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Giuseppe Lo Monaco

Studente in International Affairs presso l’Università di Bologna

Bibliografia

Krasner S.D. (1999), Sovereignty: organized hypocrisy, Princeton University Press, Princeton, USA.

Krasner S.D. (2013), Recognition: organized hypocrisy again, in “Symposium The politics of international recognition”, in “INTERNATIONAL THEORY”, 2013, 5.1.

Erman E. (2013), The recognitive practices of declaring and constituting statehood, in “Symposium The politics of international recognition”, in “INTERNATIONAL THEORY”, 2013, 5.1,

Cooper, R. (2000) The post-modern state and the world order. London: Demos, 2000.

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