Grande fomento per l’opinione pubblica ha suscitato la legge entrata in vigore nel giugno del 2015 che, proponendo di porre rimedio ai danni causati dalla vecchia formulazione risalente al 2002, ha riformato il reato di falso in bilancio e ne ha proclamato la “rinascita”.
Ricordiamo infatti che in seguito all’approvazione del d.lgs. 61 del 2002, emanato dal Governo Berlusconi, si era parlato di “depenalizzazione” del falso in bilancio. In particolare si contestava la “patrimonializzazione” degli interessi tutelati dalla nuova fattispecie, intendendo con questo l’abbandono della tutela della sola trasparenza dell’informazione societaria a favore invece della tutela di interessi patrimoniali di soci e creditori. L’accusa dunque era di aver distorto le finalità di una riforma del diritto societario, che comunque si presentava come necessaria, vista l’eccessiva discrezionalità concessa ai giudici dal precedente testo di legge.
Catastrofismo certamente non privo di fondamento, ma dotato allo stesso tempo di un certo grado faziosità.
È in questo scenario che il legislatore del 2015 si è proclamato salvatore della legalità, servendosi proprio di un reato diventato ormai il simbolo della lotta politica per eccellenza. Vediamo tuttavia con quali argomenti esso ha proposto di modificare il quadro normativo e se questi si sono rivelati idonei a far fronte alla primaria esigenza di tutelare la veridicità e la trasparenza del bilancio societario, sempre più soggetta a manipolazioni che spesso si ripercuotono sulla fiducia che la collettività ripone nelle più grandi aziende e società. Ricordiamo a proposito il caso della Banca Monte dei Paschi di Siena, i cui ex amministratori sono accusati di aver occultato perdite pari a 300 milioni di euro, omessi nel conto economico del bilancio del 2009.
Innanzitutto, in riferimento ai fatti falsi od omessi in bilancio, è stato specificato che essi devono essere “rilevanti”, notazione del tutto superflua per due ordini di ragioni.
In primo luogo, sia dottrina che giurisprudenza, da tempo concordano nel ritenere che non sia sufficiente un minimo discostamento dalla realtà ad integrare la fattispecie degli articoli 2621 e 2622 del codice civile. Inoltre lo stesso testo di legge prevede che la falsità o l’omissione debbano essere “concretamente” idonei ad indurre in errore i destinatari del bilancio stesso e nella pratica risulta arduo immaginare una falsità idonea ad ingannare che al tempo stesso non sia di per sé rilevante.
È balzata subito agli occhi anche dei non addetti ai lavori l’eliminazione delle soglie percentuali che ponevano un limite alle falsità penalmente rilevanti, inducendo così nel lettore l’idea che vi sia stato un ampliamento dell’area di punibilità del falso nelle comunicazioni sociali. A ben vedere tuttavia nel vecchio articolato a farla da padrone non erano affatto le soglie percentuali, ma la clausola generale della sensibile alterazione, come si evince da un’attenta lettura del testo della norma (art. 2621 c.c. terzo comma: «La punibilità è esclusa se le falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%». Ciò significa che il superamento delle soglie percentuali era condizione necessaria ma non sufficiente a garantire la punibilità della condotta incriminata, dal momento che l’ultima parola in merito era affidata al giudice, che poteva sentenziare la non sensibilità dell’alterazione anche qualora quest’ultima avesse superato le suddette soglie.
Tuttavia a compensare l’espunzione delle soglie percentuali il legislatore del 2015 ha inserito gli articoli 2621 bis e 2621 ter, che disciplinano rispettivamente le ipotesi di lieve entità e particolare tenuità della condotta delittuosa, le quali ancora una volta ripongono l’intera decisione sulla rilevanza del dato falso od omesso nelle mani del giudice. Dunque la formulazione è cambiata, ma il risultato è sempre lo stesso: larga discrezionalità per gli organi giudicanti e ancora poca chiarezza riguardo a ciò che nel concreto costituisce reato. Ne concludiamo che ancora una volta il “vessillo della legalità” è stato sbandierato a sproposito.
Non possiamo fare a meno di rimpiangere i tempi lontani in cui per stilare il testo di un singolo articolo gli organi parlamentari impiegavano mesi di elaborazione ed analisi di tutte le interpretazioni possibili, in modo da produrre norme che lasciavano poco spazio alla fantasia dell’interprete. Amaramente ci ritroviamo a sostenere che forse il reato di falso in bilancio risultava più efficiente nella sua formulazione precedente alla riforma del 2002, scevro da tecnicismi e tattiche politiche. D’altronde, come recita Tancredi ne “Il Gattopardo”, «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi» (Tomasi di Lampedusa G., 1958). Peccato che questa volta non sia cambiato granché.
Bibliografia
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Gambardella M., (2015), Il “ritorno” del delitto di false comunicazioni sociali: tra fatti materiali rilevanti, fatti di lieve entità e fatti di particolare tenuità, in Cassazione penale
Alessandri A., (2001), La legge delega n. 366/2001: un congedo dal diritto penale societario, in Corriere giuridico
Donini M., (2002), Abolitio criminis e nuovo falso in bilancio, in Cassazione penale
Lanzi A., (2015), Quello strano scoop del falso in bilancio che torna reato, in Guida al diritto, f. 26
Tomasi di Lampedusa G., Il Gattopardo, 1958.
Sitografia
Diritto penale contemporaneo, rivista online.
http://www.penalecontemporaneo.it/materia/-/-/-/4011-le__nuove__false_comunicazioni_sociali__note_in_ordine_sparso/