Nel 1979 la International Association for the Study of Pain (I.A.S.P.) richiese ad un gruppo di esperti una definizione del dolore, che lo descrisse come un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a un danno (in atto o potenziale), segnalata da una qualche forma di comportamento. E’ inoltre un’esperienza soprattutto soggettiva (infatti ognuno sperimenta il proprio vissuto di sofferenza) e anche quando un individuo riferisce di provarlo senza un’evidenza organica o funzionale il dolore deve essere accettato in quanto tale. La definizione fornita sottolinea la complessità dell’argomento: si tratta infatti di un’esperienza sia sensoriale (relativa al trasferimento dello stimolo doloroso dalla periferia alle strutture neurologiche centrali) che psicologica « profondamente collegata alla dimensione soggettiva e quindi inserita nel prisma delle condizioni storiche e delle relazioni sociali » [Cozzi, 2012:88].
Dietro al dolore si annidano ostacoli comunicativi e i problemi relativi a come vengono strutturate le relazioni tra medico e pazienti.
Il dolore nel tempo è diventato soprattutto un fattore da rimuovere proprio perché non oggettivabile [cfr. Cozzi, 2012]. Vivendo il dolore si sperimenta in prima persona l’impossibilità di una sua condivisione, per coglierne l’intensità occorrerebbe diventare l’altro, diventare il sofferente. Molti autori come ad esempio Elaine Scarry sostengono la difficoltà e l’impossibilità di comunicare, di esprimere il dolore fisico perché esso assume la consistenza di un fenomeno sotterraneo e invisibile. Per via di queste difficoltà infatti il discorso delle persone afflitte è intessuto di metafore, che non sono soltanto narrazioni o racconti ma vere azioni sociali, infatti « fare ricorso a metafore per rappresentare il proprio dolore vuol dire figurarlo a sé e agli altri e costruire una retorica e una poetica che abbiano una funzione di rappresentazione, cioè comunicativa » [Pizza, 2015:114].
L’antropologia medica contemporanea riflettendo sulla ubiquità del dolore lo considera come una caratteristica universale e quindi soggetto ad una elaborazione culturale,
«Le forme attraverso le quali viene rappresentato si modellano alla luce dei riferimenti sociali, culturali e storici » [Ivi, p. 109]. Si pensi ad esempio agli Ainu del Giappone e a come essi rappresentano le varie denominazioni del mal di testa usando metafore connesse al rumore dei passi degli animali (cfr. Pizza, 2015). Sull’accostamento tra dolore e appartenenza culturale è però necessaria un’attenzione critica; se da un lato è vero che ciascuno può attingere al proprio repertorio culturale per elaborare ed esprimere la propria esperienza di dolore è anche vero che non si può stabilire una correlazione meccanica tra appartenenza culturale e la forma espressiva del dolore (Ibidem).
Il tentativo più noto di fare questo tipo di collegamento è stato quello di M. Zborowsky che nel 1952 in uno studio che rifletteva sul “rapporto tra dolore e appartenenza etnica” l’autore si concentrò sui pazienti di un ospedale specializzato nella riabilitazione per reduci di guerra, concentrandosi su quelli provenienti da quattro specifici gruppi etnici*: italiani, irlandesi, ebrei e americani da più di due generazioni. Zborowsky notò che ad esempio quando soffre un italiano e chiede che il dolore venga alleviato si interessa principalmente agli effetti analgesici dei farmaci, mentre il paziente ebreo ad esempio è spesso restio ad accettare farmaci preoccupato degli effetti collaterali [Ibidem]. Per quanto questo tipo di ricerca rappresenti effettivamente il primo tentativo di collegare il dolore al concetto di cultura tuttavia occorre affermare come la consapevolezza di un possibile legame tra soglia del dolore e processi storico-culturali non legittimi alcuna teoria sulla diversa nazionalità delle percezioni del dolore, piuttosto si rischia di generare negli operatori sanitari aspettative di comportamento dei pazienti standardizzate [Ibidem].
Seguendo questo filone risulta interessante la riflessione di David Le Breton nel suo interrogarsi su come la trama sociale e culturale in cui il dolore è immerso influisca su comportamenti e valori. Il dolore propone l’eterno problema del significato del male ed è per questo che viene integrato in tutte le società in una visione del mondo che ne attribuisca significati. Un esempio è il Cristianesimo, che colloca la sofferenza umana all’interno di un disegno divino dandone anche una valenza positiva (cfr. Cozzi, 2012).
Esempi di medicina del dolore e strumenti di valutazione
Il discorso biomedico sul dolore si è storicamente concentrato su due aspetti: dolore come sinonimo di una lesione e la questione di una possibile cura connessa all’uso di farmaci antidolorifici. Isabelle Baszanger ha condotto una ricerca etnografica in due centri francesi specializzati in medicina del dolore descrivendo come nelle due cliniche gli approcci siano molto diversi nonostante la teoria clinica sulla quale i medici si basano sia tuttavia la stessa, ovvero la gate control theory of pain (teoria del controllo della soglia del dolore) proposta negli anni Quaranta dall’anestesista Jhon Bonica, ma accettata solo negli anni Settanta.
L’approccio del primo centro si fonda su interventi tecnici basati sull’impiego di anestetici e interventi chirurgici, in pratica sulla manipolazione diretta della trasmissione nervosa. Quando però l’intervento “tecnico” non funziona essi ricorrono ad altri specialisti, come psichiatri e psicologi. Nel secondo centro si è invece sviluppato un approccio opposto, piuttosto che puntare su una terapia che elimini il dolore si cerca di elaborare una metodologia di gestione e controllo del dolore. Risulta evidente come la studiosa mostri attraverso questa ricerca che la teoria tradizionale della biomedicina serva oggi più che altro a creare un confine solamente teorico.
Sempre Isabelle Baszanger mostra inoltre come gli strumenti di accertamento e classificazione del dolore siano stati essenziali per farne un oggetto malleabile e per favorirne la comunicabilità.
La classificazione gioca un ruolo fondamentale nel creare una comunità di pratiche e gli strumenti oggi più utilizzati sono:
– NRS, Numerical Rating Scale, che si presenta come una linea di 10 cm ancorata a descrittori verbali tra due estremi dove lo 0 corrisponde a nessun dolore e il 10 a un dolore insopportabile. Al paziente viene chiesto di posizionarsi all’interno del range.
– VAS, Visual Analogue Scale, simile al NRS, infatti c’è sempre una linea di 10 cm ancorata a descrittori verbali tra due estremi 0 e 10 ma stavolta la linea si presenta come un righello.
– FPS, Faces Pain Scale, che presenta una serie di “faccine” ciascuna esprimente un’espressione che va dalla sorridente alla piangente.
– IPT, Iowa Pain Thermometer, che consiste in 7 descrittori della diversa intensità del dolore disposti verticalmente simulando graficamente un termometro.
Va detto come questi strumenti di assessment rispondono soprattutto ad un’esigenza di generalizzazione e presentano il rischio di ridurre l’articolata esperienza di dolore.
Bettati Dario
* Vale la pena ricordare che le etnie non sono oggetti concreti esistenti ma piuttosto classificazioni politiche usate in un’ottica di autorappresentazione.
Bibliografia
Cozzi, D., Le parole dell’antropologia medica, Morlacchi editore University Press, Perugia, 2012
Pizza, G., Antropologia Medica, Carocci editore, Roma, 2015
Sitografia
Ministero della salute : http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?id=3769&area=curePalliativeTerapiaDolore&menu=terapia
Wikipedia : https://it.wikipedia.org/wiki/Dolore