La sindrome di Wanderlust: la malattia dell’eterno viaggiatore potrebbe essere una questione di geni

 

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“Lust for comfort
Suffocates the soul
Relentless restlessness
Liberates me” – Bjork, Wanderlust

All’interno dei resti arrugginiti del bus 142, abbandonato tra i ghiacci dell’Alaska a pochi chilometri dalla cittadina di Healy, il giovane Christopher McCandless passò gli ultimi tre mesi della sua vita cibandosi esclusivamente di bacche e piccoli animali; quasi completamente esposto al freddo dell’inverno, malnutrito e troppo debole persino per cercare aiuto, Christopher morì a ventiquattro anni dopo essersi lasciato alle spalle le prospettive di una vita per lui troppo ordinaria, desideroso com’era di caricarsi uno zaino in spalla e di intraprendere il suo viaggio verso le terre selvagge.

La sua storia, resa celebre dal libro Into the Wild e dal successivo riadattamento cinematografico, ci dimostra inequivocabilmente come l’ignoto, per alcuni, rappresenti un richiamo al quale difficilmente è possibile resistere. Ma cosa può spingere una persona ad abbandonare la sicurezza della civiltà, e in alcuni casi le certezze di un futuro stabile, solo per assecondare la propria sete d’avventura? L’incessante bisogno di viaggiare e di sperimentare esperienze sempre differenti potrebbe tramutarsi in una vera e propria patologia, laddove tali esigenze assumano una dimensione così abnorme da spingere una persona a ripudiare sistematicamente la quotidianità?

Come Christopher McCandless, altre persone avvertono continuamente questo impulso connaturato; cambia la forma, dettata anche (e soprattutto) dalle possibilità, ma non il contenuto: l’irresistibile desiderio di esplorare, nella sua manifestazione più estrema, potrebbe essere giustificato dalla sindrome di Wanderlust.

La parola Wanderlust, benché possa essere erroneamente ricollegata per assonanza all’inglese, deriva invece dall’unione dei termini tedeschi Wander (vagabondare) e Lust (ossessione). Come si può facilmente intuire, la sindrome di Wanderlust identifica il desiderio e la propensione negli uomini ad intraprendere continuamente viaggi, spesso verso mete non propriamente turistiche e convenzionali; le persone che soffrono di questa particolare sindrome passano moltissimo tempo a progettare partenze, consultando in modo compulsivo siti internet alla ricerca di buone offerte, e parlano assiduamente dei posti che hanno visitato o che vorrebbero visitare nel prossimo futuro.

Il viaggio, qualunque sia la destinazione, diventa una vera e propria catarsi mentre la routine quotidiana, con i suoi paesaggi ricorrenti e con le sue attività ripetitive, per chi soffre della sindrome di Wanderlust rappresenta una angusta prigione dalla quale tentare insistentemente di evadere. Con un atteggiamento che ricorda molto gli antichi esploratori del passato, le persone travel-addicted sognano viaggi verso terre a loro sconosciute, lontane dall’ordinario e dal caos delle metropoli al quale sono ormai abituati.

In ogni caso, al momento non esiste nessuna classificazione ufficiale in merito a questo disturbo. Da un punto di vista strettamente clinico non sarebbe corretto parlare di diagnosi di sindrome di Wanderlust, né tantomeno si può considerare degno di attenzione medica chi avverte così spesso l’esigenza di partire.

Eppure, alcune persone sembrano sperimentare un’inquietudine particolare se sono costrette a gettare l’ancora e a rimanere in un certo luogo troppo a lungo; per loro partire diventa un bisogno spasmodico, un’urgenza alla quale non possono e non vogliono sottrarsi.Come è possibile che alcuni di noi sviluppino una tale ossessione verso l’inesplorato, così marcata da rendere la vita di tutti i giorni un peso insopportabile, mentre altri si trovino perfettamente a loro agio nei posti in cui sono nati ed hanno da sempre vissuto?

La risposta, incredibilmente, potrebbe essere racchiusa all’interno del nostro genoma. Uno studio del 1999, diretto dal professor Chuansheng Chen della University of California, avrebbe individuato una variante del gene in grado di codificare la trascrizione del recettore D4 per la dopamina (nella sua forma mutata definita come DRD4-7r) capace di giustificare l’incessante bisogno di esplorare.

Elaborando i dati ottenuti dall’analisi di un campione di soggetti provenienti da 39 popolazioni differenti, e confrontando la presenza o meno del gene mutato con i modelli migratori della popolazione di appartenenza dei soggetti stessi, Cheng è riuscito a dimostrare l’esistenza di una correlazione positiva tra la distanza percorsa dalla popolazione e la presenza o meno della mutazione; in altre parole, i soggetti che presentavano la variante del gene per il recettore D4 appartenevano ad una popolazione che, nel corso della sua storia evolutiva, si era trovata a coprire distanze maggiori. Le persone che appartenevano a popolazioni sedentarie, al contrario, secondo i risultati ottenuti da Cheng non sarebbero stati in grado di sviluppare la variante mutata.

La variante DRD4-7r, nello specifico, sembrerebbe codificare una struttura differente del recettore dopaminergico D4, un tipo di recettore presente in grandi concentrazioni lungo la via mesolimbica. Questa fondamentale via cerebrale, che spazia dall’area tegmentale ventrale al Nucleus Accumbens, concorre a formare un particolare sistema denominato “circuito della gratificazione”, del quale la dopamina è appunto il principale neurotrasmettitore: tale circuito è composto da un insieme di connessioni sinaptiche che si attivano ogniqualvolta ci viene somministrata una stimolazione motivazionale (cibo, calore, sesso) che incoraggia l’assunzione di determinati comportamenti e ne facilita la ripetizione; da un punto di vista evoluzionistico è il sistema neurofisiologico che ci orienta verso gli stimoli piacevoli, garantendoci la sopravvivenza e favorendo la conservazione della specie.

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Il circuito della gratificazione

Il circuito della gratificazione è inoltre coinvolto nello sviluppo delle dipendenze da sostanze stupefacenti (ne parliamo qui), come la cocaina, l’eroina e l’alcol; i tentativi di assunzione di queste sostanze, proprio a seguito del devastante scompenso neurofisiologico che ne deriva, si sovrappongono alla ricerca del cibo, al bisogno di sonno, alla necessità di un partner. L’alterazione dell’equilibrio neurochimico porta chi soffre di dipendenza a tralasciare qualsiasi altra stimolazione a favore di quella derivante dalla somministrazione dello stupefacente, concorrendo a sviluppare ed acuire tolleranza nei confronti della sostanza stessa (per cui, ad un aumento della frequenza e della quantità di somministrazione, si registra una diminuzione degli effetti desiderati, obbligando la persona dipendente ad assumere quantitativi di sostanza sempre maggiori).

Una delle ipotesi sviluppatesi dopo lo studio di Chen è che viaggiare, in quelle persone che presentano la mutazione DRD4-7r, potrebbe attivare direttamente il circuito della gratificazione e ricoprire dunque il ruolo di un vero e proprio rinforzo positivo, al pari di una qualsiasi sostanza capace di creare assuefazione; allo stesso modo l’impossibilità di intraprendere un viaggio per troppo tempo, intesa come assenza di stimolazione favorevole, potrebbe giustificare l’inquietudine quotidiana che accompagna la routine di chi sarebbe affetto dalla sindrome di Wanderlust.

Kenneth Kidd, membro del team che all’epoca identificò la variante DRD4-7r ed ora professore alla Yale University, raccomanda comunque cautela: secondo l’esperto genetista non è sufficiente la mutazione di un singolo gene per contribuire a determinare una variazione così marcata a livello comportamentale; è probabile infatti che la tendenza al Wanderlust si sviluppi almeno a seguito dell’azione combinata di più geni, i quali sono in grado di favorire non solo la motivazione necessaria allo spostamento, ma anche i mezzi fisici e fisiologici necessari per quel caratteristico stile di vita.

In ogni caso, sembra che il coinvolgimento della dopamina e del circuito della gratificazione sia ad oggi una condizione necessaria (seppur non sufficiente) nel determinare l’irrequietezza tipica del Wanderlust. Alcuni autori, nonostante gli studi di Chen, tendono a ridimensionare il ruolo della singola mutazione DRD4-7r a favore di una serie di elementi radicati nel corso dello sviluppo infantile: in concomitanza con la variazione del recettore D4, questi stessi elementi potrebbero essere la causa della viscerale propensione al viaggio presente in alcuni di noi.

Secondo Alison Gopnik, psicologa dello sviluppo infantile e anch’essa professoressa alla University of California, la propensione all’esplorazione potrebbe derivare dallo sviluppo massivo delle capacità immaginative. Gli esseri umani, infatti, per la Gopnik godono di una condizione unica nell’intero mondo animale: un’infanzia assai lunga all’interno della quale poter continuare a godere della protezione dei genitori, e nella quale poter egualmente assecondare in completa sicurezza la propria voglia di esplorare.

Anche il gioco infantile potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nello sviluppo della sindrome di Wanderlust: molti animali giocano durante l’infanzia, ma lo fanno generalmente per esercitarsi in abilità come la caccia e la lotta, attività che diverranno poi fondamentali per la sopravvivenza.Nei bambini, al contrario, il gioco consiste nell’ideare scenari ipotetici, arrivando a mettere in discussione le ipotesi attraverso una serie di prove ed errori: essi sono in grado di prendere in mano il mestolo della madre e di trasformarlo in un’astronave, e poi di chiedersi a quale velocità potrebbe andare una volta lanciato vero il muro. Non solo, possono ad esempio domandarsi se inclinando maggiormente il braccio verso l’alto l’astronave possa raggiungere un’altezza maggiore, o atterrare ancora più lontano rispetto al lancio precedente.

Questa tendenza alla sperimentazione, se mantenuta durante l’adolescenza e l’età adulta, secondo la Gopnik potrebbe rappresentare una delle caratteristiche fondamentali degli esploratori del passato e, oggi, di quelle persone che possono considerarsi affette dalla sindrome di Wanderlust. Visti i risultati di questi studi, potremmo considerare la tendenza a viaggiare il risultato di meccanismi atavici, innati e regolati da modificazioni neurochimiche ben precise, correndo tuttavia il rischio di tralasciare gli elementi che meglio definiscono la nostra umanità e che, al contrario, difficilmente talvolta possono essere definiti con precisione. Cinquantamila anni fa iniziavamo il nostro viaggio verso le zone più remote di questo pianeta e neppure oggi, che siamo riusciti ad esplorarne gli angoli più lontani, sembriamo intenzionati a fermarci. Abbiamo attraversato gli oceani più profondi e scalato le montagne più alte e adesso, alzando lo sguardo verso le stelle, ci accingiamo come esploratori ad accettare la sfida più grande della nostra storia.

Ed allora, forse, è bene lasciarsi con la domanda più bella e difficile che ci possiamo porre a riguardo: per concludere con le parole di Svante Pääbo, direttore del dipartimento di genetica dell’istituto Max Planck: «Noi scavalchiamo i confini. Ci spingiamo in nuovi territori anche quando lì dove siamo non ci mancano le risorse. Gli altri animali non lo fanno. E nemmeno le altre specie umane. I Neandertal sono vissuti per centinaia di migliaia di anni, ma non si sono mai sparsi per il mondo. Noi in soli 50 mila anni abbiamo occupato tutto il pianeta. C’è una sorta di follia in questo. Quando viaggi in mare aperto non hai idea di cosa ci sia dall’altra parte. E adesso andiamo su Marte. Non ci fermiamo mai. Perché?».


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Info

 

 

 

Bibliografia

Chen, C., Burton, M., Greenberger, E., & Dmitrieva, J. (1999). “Population migration and the variation of dopamine D4 receptor (DRD4) allele frequencies around the globe”. In Evolution and Human Behavior, 20(5)

Gopnik, A., Meltzoff, A. N., & Kuhl, P. K. (2009). The scientist in the crib: Minds, brains, and how children learn, HarperCollins

Krakauer, J. (2009). Into the wild. Anchor.

Lichter, J. B., Barr, C. L., Kennedy, J. L., Van Tol, H. H., Kidd, K. K., & Livak, K. J. (1993). “A hypervariable segment in the human dopamine receptor D4 (DRD4) gene”. In Human Molecular Genetics, 2(6)

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