Nella prima settimana di agosto 2016 una massiccia fuga di notizie ha destato scalpore in Australia: il The Guardian li ha definiti i “Nauru Files”, circa 2’000 testimonianze di abusi compiuti nei confronti di richiedenti asilo, soprattutto minori, trapelate dai campi profughi allestiti per conto del governo australiano sull’isola di Nauru. Il terzo stato più piccolo del mondo (dopo Vaticano e Principato di Monaco), localizzato nell’arcipelago della Micronesia, aveva infatti siglato degli accordi con il governo di Canberra per la realizzazione di centri di detenzione ed identificazione per richiedenti asilo (diretti in Australia) a partire dal 27 settembre 2001 (cfr. Dastyari, 2007).
La cosiddetta “Pacific Solution”, elaborata dall’allora governo Howard, consisteva nel ridefinire i territori australiani per designare specifiche zone (migration zones) in cui sarebbe stato possibile approdare e presentare la domanda di protezione internazionale. In tutti i rimanenti territori l’approdo di imbarcazioni non autorizzate fu proibito, chiunque vi avesse messo piede sarebbe stato trasferito verso stati-terzi come Nauru e Papua Nuova Guinea dove avrebbe potuto seguire l’iter burocratico per la determinazione dello status di rifugiato. Il successo (puramente statistico) di questa politica fu evidente: nel periodo che va dal 2001 al 2007, solo 57 richiedenti asilo furono in grado di approdare in Australia nelle zone “consentite” (cfr. Dastyari, 2007).
Anche le percentuali di persone giudicate avere fondati timori di far ritorno nei propri paesi d’origine si abbassarono drasticamente con il trasferimento delle pratiche ai governi di Nauru e Papua. Diversi avvocati ed attivisti per i diritti umani iniziarono battaglie legali contro la decisione del governo, ritenendola una chiara violazione del principio fondamentale di non-refoulement (non respingimento), sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, ma da agosto 2001 a marzo 2003 le loro richieste di visto per fornire assistenza legale furono ripetutamente negate. Non riconoscendo quei diritti umani fondamentali come la non-discriminazione e l’assistenza legale, queste strutture si configurarono fin dall’inizio come “zone d’eccezione”, secondo la definizione di Agamben, «spazi vuoti da ogni legge, zone di anomia nelle quali ogni determinazione giuridica viene disattivata» [Agamben, 2003:50].
La Pacific Solution poteva però contare su un precedente celebre che aveva dimostrato pochi anni prima come i diritti dei rifugiati, e di conseguenza i diritti umani, potessero essere sospesi nello “iato normativo” [Chetail, 2014:31] che si crea tra accordi internazionali e leggi domestiche nazionali volte al controllo della migrazione. Il precedente in questione è quello dei rifugiati haitiani e cubani detenuti a Guantanamo tra il 1991 e il 1995. All’inizio degli anni ’70, gli haitiani perseguitati dal regime di Duvalier avevano iniziato ad intraprendere la traversata di 600 miglia verso la Florida a bordo di imbarcazioni di fortuna. Tra il 1972 e il 1979 arrivarono negli Stati Uniti circa 8’000 profughi (cfr. Koh, 1995). Negli anni ’80 i numeri di coloro che cercavano la salvezza affidandosi al mare aumentarono drammaticamente e il governo americano mise in pratica una politica di interdiction and screening (interdizione e vaglio): la guardia costiera statunitense iniziò ad intercettare i profughi haitiani in alto mare e ad interrogarli a bordo delle proprie navi, coloro che erano ritenuti avere giustificati timori di far ritorno in patria a causa di persecuzioni politiche venivano poi condotti su suolo statunitense per procedere con la domanda ufficiale di protezione*.
Nella realtà dei fatti, dei 24’600 haitiani intercettati in quel decennio, solo undici furono scortati negli Stati Uniti, gli altri vennero rimpatriati (cfr. Koh 1995:142; Ratner 1998:90). All’inizio degli anni ’90, in seguito a brevi colpi di stato militari, una nuova ondata di rifugiati si riversò negli Stati Uniti che, ancora una volta, risposero con una politica di interdizione e controlli a bordo. Nei due anni seguenti circa 54’000 profughi furono intercettati e reindirizzati verso Haiti nell’assordante silenzio della comunità internazionale (cfr. UNHCR, 1995). La questione ottenne attenzione solo grazie ad avvocati volontari e a network di attivisti per i diritti umani che affrontarono l’amministrazione Bush in numerosi processi giuridici, ottenendo parziali ma significative vittorie. Denunciavano la politica di respingimento per aver violato il principio di non-refoulement avendo respinto potenziali rifugiati senza che venisse condotto un accertamento appropriato della loro situazione. Inoltre il rimpatrio forzato di queste persone sarebbe potuto risultare, ed in effetti risultò (cfr. UNHCR, 1995), in detenzioni, torture e trattamenti disumani perpetrati dalle autorità haitiane, contravvenendo a diversi articoli della legge statunitense e convenzioni internazionali contro la tortura (cfr. Koh, 1995).
Temporaneamente impedita nelle procedure di rimpatrio, l’amministrazione Bush optò quindi per una nuova politica: interdizione e detenzione in campi offshore. A partire dal novembre 1991 la guardia costiera iniziò a trasferire i profughi intercettati (sia quelli positivi al “fear test” che quelli negativi) in un campo allestito in fretta nella base navale militare di Guantanamo (Cuba). Lo status speciale del territorio di Guantanamo, acquisito tramite un accordo “unico e perpetuo” stipulato con Cuba nel 1903, che garantisce agli Stati Uniti la “completa giurisdizione e il controllo su dette aree” (cfr. Koh, 1995:143), presentava dei vantaggi immediati per la giunta Bush, fra tutti «l’inaccessibilità della base avrebbe impedito a reporters, giornalisti e altri di controllare il trattamento degli haitiani […] e il governo avrebbe potuto asserire che ai rifugiati non potesse essere garantito alcun diritto legale e costituzionale» [Koh, 1995:192]. In effetti, il governo americano dichiarò che la Costituzione non aveva alcuna valenza nel territorio di Guantanamo, dato che ai rifugiati era consentito presentare domanda di protezione internazionale solo qualora avessero “messo piede” su suolo americano. La legge statunitense in materia di immigrazione prevede infatti che, al fine di ottenere protezione internazionale, uno straniero «deve essere fisicamente presente negli Stati Uniti, oppure arrivare negli Stati Uniti dopo essere stato intercettato in acque nazionali o internazionali». Il governo poteva dichiarare “senza alcun diritto legale” i profughi detenuti nella base navale in quanto il termine “Stati Uniti”, per come esplicitato nell’art. 101 dell’Immigration and Nationality Act non comprende il territorio di Guantanamo. Un ulteriore paradosso contrassegnò la vicenda dei profughi: a partire dall’autunno 1992 un gruppo di 300 haitiani fu detenuto per più di un anno e mezzo in una parte isolata del campo, Camp Bulkeley, poiché risultati positivi al test per l’HIV. Nonostante avessero superato il cosiddetto fear test, l’INS aveva negato loro l’ingresso in USA basandosi su una clausola della legge nazionale che proibiva l’accesso a “stranieri con malattie infettive dannose per la salute pubblica” [Ratner, 1998:196].
Fin dagli inizi dell’epidemia, il dibattito pubblico sull’HIV era stato circondato da isteria e forti pregiudizi e coloro che più di tutti erano stati stigmatizzati come portatori del morbo erano gli haitiani. Paul Farmer conferma che «pochi altri paesi al mondo sono stati marchiati così in profondità dall’associazione a malattie infettive endemiche come Haiti» [Farmer, 1992:238]. Questa accusa trovò terreno fertile in una serie di stereotipi preesistenti, che Farmer esemplifica così: «è difficile vendere Haiti come un paradiso turistico quando l’immaginario popolare la rende a tutti gli effetti una visita turistica all’inferno. Estrema povertà, AIDS, bambini ridotti in schiavitù, zombies, sacrifici vodoo e violenza politica sono solo alcune delle immagini negative che un operatore turistico americano avrebbe potuto incontrare» [Farmer, 1992:238]. L’etichetta di portatori di AIDS, continua Farmer, era quindi l’ennesimo esempio di una tendenza di lunga data dei nordamericani ad «incolpare le vittime», indice di «razzismo endemico» e di una «teoria popolare che vede negli Haitiani degli esseri tanto esotici quanto infetti» (Ivi, p. 251). L’istituzione di Bulkeley Camp fu quindi una scappatoia legale che consentì la detenzione illimitata di persone che era possibile escludere (perché sieropositive) ma non rimuovere (perché giudicate rifugiati genuini), in un limbo di indeterminatezza e di sospensione dei loro diritti più fondamentali.
Il modello dei campi profughi offshore ebbe però una fortuna considerevole. Nel 1994 un nuovo provvedimento venne emanato per istituire dei “porti sicuri” (“safe havens”) in varie località esterne agli USA, perlopiù a Panama, in Honduras e altri paesi caraibici. Guantanamo Bay venne ancora una volta impiegato per “accogliere” i 23’000 cubani in fuga dal regime castrista intercettati in alto mare nel 1994 (cfr. Koh, 1995). In questa occasione, la Corte Federale d’Appello stabilì che i rifugiati haitiani e cubani detenuti a Guantanamo e Panama erano effettivamente «senza diritti legali riconosciuti nelle corti degli Stati Uniti», e di conseguenza «il primo emendamento non poteva essere applicato nel caso dei migranti o dei loro avvocati americani» [Koh, 1995:158]. Questo verdetto stabilì teoreticamente e praticamente le basi per la sospensione di ogni diritto che si realizzò nel periodo post 9/11 con il celebre Patriot Act, che forniva ai militari la libertà di discriminare e terrorizzare i detenuti di Guantanamo, far loro soffrire la fame e sottometterli a trattamenti disumani (Ibidem).
In conclusione, connettendo questi due esempi storici è possibile evidenziare una tendenza allarmante di molti stati a derogare dagli obblighi internazionali di fornire protezione e diritti ai rifugiati. Ciò viene reso possibile tramite contrattazioni per delegare il trattamento dei migranti a stati-terzi con meno scrupoli, sfruttando scappatoie dagli accordi internazionali e iati normativi presenti nelle legislazioni nazionali. È in questo vuoto che la vita umana può essere spogliata da ogni qualità politica e storica ed essere trattata come «nuda vita» (cfr. Agamben, 1995). In zone d’eccezione come Guantanamo le persone soffrono, usando le parole di Hannah Arendt, per «la nudità astratta di essere umani e nient’altro» [Arendt, 1951:257]. In queste condizioni si realizza quindi quella soppressione dell’essere umano come entità politica che per proprio fondamento ha il «diritto di avere diritti» (Ibidem), tragica ironia esemplificata dal caso dei rifugiati cubani che, «fuggiti dalla Cuba comunista in cerca di diritti negli Stati Uniti, si ritrovarono detenuti indefinitamente dagli stessi Stati Uniti, nella Cuba non comunista, in un luogo nel quale scoprirono altresì di non godere di alcun diritto» [Koh, 1995:164].
Fosco Bugoni
* È opportuno ricordare che secondo l’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951, rifugiato è «chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato» [Convenzione sullo Statuto dei rifugiati, capo I, art. 1].
Bibliografia
Agamben, G. (1995), Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino
Agamben, G. (2003), Stato d’eccezione. Homo sacer II, 1, Bollati Boringhieri, Torino
Arendt, H. (1958), Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi
Chetail, V. (2014). Are Refugee Rights Human Rights? An Unorthodox Questioning of the Relations between Refugee Law and Human Rights Law in Human Rights and Immigration, Collected Courses of the Academy of European Law, R. Rubio-Marin, Oxford: Oxford University Press
Dastyari, A. (2007), Refugees on Guantanamo Bay: A Blue Print for Australia’s “Pacific Solution”?’, AQ: Australian Quarterly
Farmer, P. (1992). AIDS and accusation: Haiti and the geography of blame, Oxford: University of California Press, Berkley, California
Koh, H. H. (1995). America’s Offshore Refugee Camps’. Faculty Scholarship Series. Paper 2094. (Accessibile al link: http://digitalcommons.law.yale.edu/fss_papers/2094.)
Ratner, M. (1998), How We Closed the Guantanamo HIV Camp: The Intersection of Politics and Litigation. In Harvard Human Rights Journal Vol. 11
Sitografia
UNHCR, (1995), Haiti: Prospects for Democracy, accessibile al link: http://www.refworld.org/docid/3ae6a6c30.html.
Sui Nauru Files: https://www.theguardian.com/australia-news/2016/aug/10/the-nauru-files-2000-leaked-reports-reveal-scale-of-abuse-of-children-in-australian-offshore-detention
Sulla Pacific Solution, comunicato stampa diramato dall’UNHCR: http://www.unhcr.org/47ac3f9c14.html