Il 2016 è stato l’anno delle Olimpiadi di Rio; anno in cui tutti, sportivi e non, ci siamo sentiti un po’ più vicini al mondo dello sport – quello vero, fatto di sacrifici e fatica, e di amore incondizionato per quello che si fa, prescindendo da ogni scopo di lucro. D’altronde, questo è sempre stato lo spirito fondante delle Olimpiadi, fin dai tempi antichi. Proprio per questo la Carta Olimpica, elaborata da Pierre de Coubertin nel 1896, padre delle prime Olimpiadi dell’età moderna, escludeva del tutto la partecipazione di atleti professionisti (e delle donne) ai giochi – una regola rimasta in vigore per lunghissimo tempo. Solo negli anni ottanta del ventesimo secolo la visione di Coubertin fu superata, consentendo la partecipazione ai giochi Olimpici anche agli atleti professionisti: la società e lo sport erano cambiati, ed era ormai chiaro a tutti che per competere ai più alti livelli era necessario dedicare allo sport tutta la propria vita, e non solo il tempo libero.
Fu proprio all’inizio degli anni ottanta che il legislatore italiano decise che era quindi giunto il momento di regolamentare l’attività sportiva professionistica, dando vita alla legge del 3 marzo 1981 n.91.
La legge, in realtà, lungi dal fornire una disciplina dettagliata dello sport professionistico, fu più che altro un testo di carattere generico e di principio, che lasciava al CONI ed alle federazioni sportive nazionali il compito di disciplinare nel dettaglio le singole attività sportive.
L’art. 1, con un testo dal tenore quasi costituzionale, rende bene il carattere volutamente programmatico della legge: «L’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero».
Il legislatore prosegue poi con lo scindere l’attività sportiva in due macro-categorie: l’attività sportiva professionistica, svolta nell’ambito di società di capitali; e l’attività sportiva dilettantistica, svolta invece nell’ambito di associazioni e società senza scopo di lucro. Il testo di legge prevede poi diverse disposizioni che regolano i rapporti contrattuali tra le società e gli atleti professionisti, insieme con la disciplina generale del lavoro subordinato sportivo. Sono presenti infine alcune disposizioni sulla tutela sanitaria, l‘assicurazione contro i rischi, ed il trattamento pensionistico e tributario riservato agli atleti professionisti.
Per il resto, la legge rinvia ai regolamenti del CONI e delle singole federazioni nazionali la disciplina di dettaglio ed i criteri di distinzione tra l’attività dilettantistica e quella professionistica. Il legislatore, durante la stesura del testo legislativo, non si interessò a fornire alcun reale criterio per la qualificazione di atleta professionista o dilettante, limitandosi ad affermare che: «sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica (corsivo aggiunto)».
Sono quindi le federazioni nazionali, in osservanza delle direttive stabilite dal CONI, a decidere quali sport possano prevedere la qualifica di atleta professionista, e quali invece debbano limitarsi ad attività dilettantistica.
Secondo i regolamenti vigenti delle federazioni sportive italiane, solo per quattro sport (calcio, ciclismo, golf, pallacanestro) su più di sessanta, tra i più diffusi in Italia, è prevista la possibilità di farne una professione. I restanti sono destinati a rimanere sport dilettantistici per definizione: nuoto, pallavolo e tennis sono solo alcuni esempi di attività sportive che, nonostante il grande seguito e rilevanza mediatica, non prevedono formalmente la qualifica di atleta professionista. Ciò non significa, attenzione, che gli atleti non ricevano compensi per l‘attività svolta, ma che nonostante il rapporto tra società ed atleta sia di fatto qualificabile come subordinato a titolo oneroso (e quindi, professionistico), questi atleti non hanno accesso alle tutele che sarebbero invece d’obbligo in virtù di un contratto da atleta professionista (tutela sanitaria e previdenziale in primis).
Nel 2016, anno delle Olimpiadi di Rio, l’Italia è un paese di dilettanti.
Le donne, purtroppo, a causa dell’evidente lacuna normativa, subiscono spesso anche discriminazioni di genere del tutto ingiustificabili. Il calcio è paradigmatico in questo senso. Nonostante la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio) preveda esplicitamente la possibilità di qualificare il calcio come attività sportiva professionistica, le donne ne sono completamente escluse da regolamento. Se da un lato i calciatori possono dare avvio ad una vera e propria carriera calcistica professionale, con tutte le tutele del caso, dall’altro le calciatrici sono relegate ad uno status giuridico di dilettantismo obbligato (ma professionismo di fatto).
La mancata qualificazione di atleta professionista pesa anche e soprattutto a quelle donne che in caso di maternità non solo non hanno diritto a ricevere alcuna indennità da parte delle società per cui svolgono la propria attività, ma anzi rischiano in alcuni casi di trovarsi abbandonate a causa di assurde clausole rescissorie anti-maternità. In questo senso una lieve speranza risiede in una proposta di legge del 2013 (presentata dai deputati Vezzali, Bocci, Coccia, Binetti, Fossati, Matarrese) tesa ad estendere le tutele previdenziali e di maternità anche ad atleti ed atlete non professionisti ma che di «esercitano in modo esclusivo attività sportiva dilettantistica interesse nazionale». In realtà sarebbe auspicabile una revisione della legge 91/1981 con conseguente adeguamento del regolamento del CONI e delle federazioni nazionali, al fine di eliminare del tutto la possibilità di abusi ed il dilagare di rapporti dilettantistici fittizi, che tanto ricordano il fenomeno dei c.d. lavoratori para-subordinati.
Anche l’Unione Europea chiede da tempo (con risoluzione del Parlamento Europeo del 5 giugno 2003) di assicurare a donne e uomini pari condizioni di accesso alla pratica sportiva, sollecitando gli Stati Membri a sopprimere qualsiasi distinzione fra pratiche maschili e femminili. Neanche la giurisprudenza italiana ignora l’evidente discriminazione in atto da ormai 35 anni. Recentemente il Tribunale di Pescara si è espresso con un’ordinanza di condanna su ricorso di un pallanotista che denunciava la natura discriminatoria della condotta tenuta dalla F.I.N. (Federazione Italiana Nuoto). Secondo il Tribunale «la distinzione tra professionismo e dilettantismo nella prestazione sportiva si mostra priva di ogni rilievo, non comprendendosi per quale via potrebbe mai legittimarsi una discriminazione del dilettante».
E’ ormai evidente che l’estrema libertà lasciata alle federazioni nella qualificazione di atleta dilettante o professionista spesso comporti fenomeni discriminatori che non trovano alcuna giustificazione; i quali, oltre a mettere in cattiva luce un paese che vorrebbe essere all’avanguardia nella tutela dei diritti e delle pari opportunità, producono delle barriere difficili da superare per coloro che vorrebbero fare dello sport la propria vita.
Matteo Navacci
Bibliografia
Legge 23 marzo 1981, n. 91 Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti. (G.U. 27 marzo 1981, n. 86)
Trib. Pescara, ordinanza 18 ottobre 2001
Sitografia
http://www.camera.it/_dati/leg17/lavori/stampati/pdf/17PDL0005380.pdf
http://www.coni.it/images/Statuto_CONI_delibera_CN_1549_del__4-5-2016_-_recepite_indicazioni_PCM.pdf
http://www.settoretecnico.figc.it/downloadfile.aspx?c=&f=Allegati/1232015174831.pdf