Negli ultimi anni, le persone colpite da attacchi di panico sono aumentate sempre di più. Lo stress via via sempre maggiore della vita quotidiana è terreno fertile per il diffondersi a macchia d’olio di quello che è uno dei più comuni disturbi d’ansia dei nostri giorni.
Cos’è l’ansia?
Paura e ansia sono due emozioni che vanno a braccetto, in quanto l’ansia non è altro che la paura che stia per verificarsi qualcosa di spiacevole. Paura e ansia dipendono dall’attivazione dello stesso circuito emozionale. A livello fisico l’attacco di panico si manifesta con un aumento della risposta simpatica del nostro sistema nervoso autonomo: tachicardia, sensazione di calore, tremori, sudorazione, fame d’aria spesso accompagnata dalla sensazione di non riuscire a immettere ossigeno nei polmoni. A livello psicologico, la mente fa trionfare il panico in tutte le sue dimensioni. L’esperienza è talmente opprimente e negativa che il soggetto è concentrato solo sull’esigenza di sopravvivere e a fare in modo che l’episodio passi alla svelta (se non si è da soli, parlare con un’altra persona è un ottimo modo per accelerare i tempi). In genere, la prima manifestazione tende ad avvenire in concomitanza con un evento o un periodo di vita stressante, per poi continuare a presentarsi all’improvviso senza una causa apparente.
Cosa succede dentro al corpo a livello chimico?
L’attacco di panico è generato dalla cronicizzazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), cioè di un meccanismo adattivo che ci permette di far fronte alle avversità, permettendoci la sopravvivenza. In altre parole, mentre la persona è convinta di stare per morire in realtà il suo corpo sta mettendo in atto una risposta finalizzata alla vita.
Pensiamo ad un uomo primitivo, che si addentra nel bosco per andare a caccia e si ritrova davanti un orso. Cosa ne sarebbe di lui se non gli si attivasse l’HPA e non scappasse via a gambe levate? I meccanismi che si attivano nel corpo di questo immaginario uomo primitivo sono gli stessi che si osservano in una ragazza che viene colta da un attacco di panico mentre è placidamente seduta su un autobus, con la differenza che quest’ultima non ha bisogno di fronteggiare alcun pericolo. La ragazza, in questo caso, sta subendo le conseguenze di un meccanismo del tutto adattivo e funzionale che si è però cronicizzato e si manifesta quando non è il momento, disorientandola.
Se andiamo a vedere cosa succede all’interno del cervello in questi casi scopriamo che, dopo che l’amigdala ha riconosciuto uno stimolo come potenzialmente nocivo, l’ipotalamo produce la corticoliberina o CRH, la quale induce l’ipofisi a produrre un altro ormone chiamato corticotropina, o ACTH. La corticotropina immessa nel sangue va ad agire sulle ghiandole surrenali attivando la produzione del cortisolo, detto comunemente “l’ormone dello stress”. Il cortisolo ha un ruolo molto importante, in quanto aumenta il metabolismo del glucosio e la sua disponibilità nel sangue, il tutto per facilitare la reazione pronta del corpo in caso di necessità. Nel frattempo, sempre nelle vicinanze dei reni ovvero dalla midollare del surrene, saranno già state rilasciate adrenalina e noradrenalina, responsabili di tutte quelle risposte a livello simpatico che preparano il corpo a sferrare una reazione istantanea in caso di attacco (ad esempio, fanno innalzare la pressione sanguigna).
Il risultato di tutto ciò è una sorta di preparazione ottimale del corpo alla fuga: il cuore deve pompare più sangue perché il corpo ha bisogno di ossigeno, la pressione aumenta, gli zuccheri sono disponibili e pronti all’uso. Se avessimo davvero un orso davanti il nostro corpo porterebbe a compimento il processo permettendo di metterci in salvo. Il problema è che l’attacco di panico si attiva in automatico senza motivo apparente e colpisce quando si è fermi. Non avendo una spiegazione plausibile a tali sconvolgimenti fisici, la persona reagisce sperimentando ancora più paura e impotenza.
In sostanza, l’attacco di panico consiste nella cronicizzazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, un meccanismo adattivo che il nostro corpo sfrutta per permetterci di dare la massima perfomance in caso di attacco o di fuga. Quando l’asse si cronicizza inizia ad attivarsi in automatico, senza che si manifesti per forza un pericolo tangibile e anche nei momenti in cui la persona è rilassata. Sotto certi punti di vista, l’attacco di panico può rappresentare una risposta condizionata, ovvero un comportamento appreso: se un certo stimolo provoca al soggetto una risposta di paura, nel momento in cui altri stimoli vengono associati al primo produrranno anch’essi la medesima risposta.
Quando si convive con questo disturbo, lo stress del soggetto finisce con l’autoalimentarsi, in un circolo vizioso che nei casi più gravi può risucchiarlo in uno stato emotivo di tensione perenne, fino a stravolgere il suo normale funzionamento. Ad esempio, la persona può rifiutarsi di guidare per paura di essere colpita da un attacco proprio in quel momento e rischiare un incidente; può evitare mezzi pubblici o luoghi molto affollati dove “manca l’aria”; smette di andare a fare la spesa per paura che il panico possa sorprenderla dentro al supermercato (perché magari già è capitato) e così via. Un po’ come se, non sapendo come colpirà, si giocasse in difesa per precauzione. Il problema è che questo gioco di difesa non è per nulla salutare e può solo che alimentare quel circolo vizioso in cui la persona taglia i ponti col mondo fino a ritrovarsi, giorno dopo giorno, letteralmente murata viva in casa. Questo non significa per forza che sia depressa: attacchi di panico e depressione sono due meccanismi ben diversi, associati ad impulsi chimici diversi e che hanno una terapia distinta. La comorbidità tra i due (cioè la presenza di più patologie simultaneamente) è riscontrabile, tuttavia il primo è un disturbo d’ansia mentre il secondo è un disturbo dell’umore.
Al contrario, il metodo giusto per uscirne è quello di imparare a reagire. Una volta che il nostro cervello disattiva il meccanismo di “riproduzione automatica” dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, gli attacchi di panico smettono di manifestarsi. Bisogna spingere “stop”. Come? La terapia farmacologica (benzodiazepine) sembra essere molto valida, unita magari anche ad una terapia psicologica. Quando l’attacco di panico si configura come risposta condizionata, potrebbero rivelarsi moto utili terapie comportamentali che fanno perno sul decondizionamento.
Un’altra soluzione altamente efficace nonché economica è la forza di volontà. Evitare di chiudersi in casa, non aver paura di essere colpiti da un attacco di panico mentre si è in giro, circondarsi di persone fidate e fare le cose che soddisfano di più sono dei passaggi fondamentali per risolvere il problema. Reagire, aver voglia di venirne fuori e magari fare anche un’analisi su se stessi per cercare di capire se c’è un minimo comune denominatore che favorisce le manifestazioni d’ansia. A volte bastano dei salutari cambiamenti di vita per risolvere il problema: cambiare scuola, cambiare ufficio, chiudere una storia o smettere di frequentare certe persone. In altri casi la situazione è ben più complessa da gestire, la cosa importante è tenere a mente che una volta che si conosce bene il problema (cos’è realmente un attacco di panico) e quali possono essere le possibili cause scatenanti (che dipendono da persona a persona, ma di solito si tratta sempre di situazioni che il soggetto gradisce poco), difficilmente una patologia del genere potrà protrarsi a lungo. A fare la differenza in questo caso è solo la motivazione a uscirne, la forza di volontà e la sicurezza in se stessi che, uniti alla presenza di persone che sanno sostenere gli altri e dare il giusto peso al problema invece di giudicare e minimizzare, formano un cocktail che non lascia scampo a nessun altro attacco di panico.
Bibliografia
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