Dentro e fuori delle poleis

 

Nelle poleis greche ogni cittadino libero doveva sottostare alle stesse norme e leggi di diritto, che garantivano e creavano armonia tra i cittadini e la polis, tra gli individui e la società. L’uomo greco, tramite queste leggi, si sentiva inserito nella sua comunità: ognuno trovava la propria realizzazione nella partecipazione alla vita collettiva e nella costruzione del bene comune. Gli esclusi erano tutti coloro che non avevano il diritto di partecipare alla vita sociale e politica della polis e tra questi vi erano gli stranieri.

La polis creava due tipi di straniero: lo xenos e il barbaro.

Il primo era considerato uno straniero di stirpe greca e per questo pur non godendo di alcun diritto civile, condivideva però con gli altri cittadini una stessa comunità culturale e linguistica. Il secondo, invece, era considerato straniero sia dal punto di vista etnico-culturale, sia da quello politico e sociale. Un barbaro era quindi considerato straniero due volte e per questo posto al di fuori dell’armonia della polis. L’invenzione dello straniero serviva alle poleis per costruire degli spazi sospesi, dei tempi non definiti e dei non luoghi in cui l’individuo veniva completamente spersonalizzato. Quelle greche, tuttavia, non restano discorsi da lasciare all’archeologia e agli archivi, infatti ancora oggi abbiamo esempi che dimostrano come un individuo possa essere reinventato e posto al di fuori della polis moderna e i casi, in Italia dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), sono emblematici in merito.

I CIE, precedentemente denominati CPT (Centri di Permanenza Temporanea), sono stati istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione “Turco Napolitano” e sono delle strutture detentive per stranieri «sottoposti a provvedimenti di espulsione e o di respingimento con accompagnamento coattivo alla frontiera» (art. 12 della legge 40/1998) nel caso in cui il provvedimento non sia immediatamente eseguibile. Attualmente in Italia sono tredici i CIE in funzione, per un totale di 1901 posti disponibili. Essi potrebbero considerarsi delle carceri extralegali e alcuni di questi, come quello di Bari, sono difficilmente individuabili sulle mappe del territorio italiano (se non con descrizioni vaghe del tipo “area aeroportuale”), come invece dovrebbe essere per un qualunque luogo abitato di uno Stato e in questo senso spesso rappresentano una mera espressione geografica e un non luogo civile e del diritto. Per l’antropologo francese Marc Augé, un non luogo si spiega in contrasto al «luogo antropologico, […] in cui sono inscritti il legame sociale e la storia collettiva. […] Il luogo è identitario, relazionale e storico» [Augè, 2009]. Il luogo è quindi spazio e identità, mentre il non luogo è viceversa uno spazio senza identità.

Nei CIE, così come nei non luoghi augeiani, gli individui, privati dei propri necessari riferimenti, perdono la propria identità.

Tale privazione è una negazione del proprio essere sociale, e quindi, come capitava nelle poleis greche, a una spoliazione del proprio sé. In realtà, questo processo di spersonalizzazione è in corso da molto tempo, fin da prima della creazione dei CIE, come confermano le parole di Stefan Zweig, in Il mondo di ieri: «una volta l’uomo aveva un’anima e un corpo, oggi ha bisogno anche di un passaporto, altrimenti non viene trattato da essere umano. I non luoghi esaltano questo processo di azzeramento della persona sino al grottesco» [Zweig, 1994:11].


La spoliazione dell’individuo inoltre, è da sempre stata anche una peculiarità delle istituzioni totali (luogo in cui gruppi di persone risiedono e convivono per un significativo periodo di tempo). Erving Goffman, indicava la categorizzazione dell’individuo come una delle caratteristiche fondanti di un’istituzione totale (cfr. Goffman, 1968), tale tendenza la ritroviamo anche oggi nei CIE e è proprio per questo motivo, che oggi possiamo considerare i CIE come delle istituzioni totali del nuovo millennio. Nei CIE infatti, a una persona straniera oltre ad essere negato ogni attributo inerente la sfera della civitas, viene prepotentemente attaccata la pesante etichetta di “clandestino” e con questa spogliato dei propri diritti di cittadino.

La spoliazione nei Centri può assumere più forme: da quella giuridica a quelle prettamente fisiche, tramite l’azione della perquisizione. Tale pratica nei Centri è spesso degradante per il luogo in cui avviene e per come avviene, perché essa, spesso causa meccanismi di abuso di potere da parte dello staff dei Centri (solitamente composto da personale militare interforze e personale della Croce Rossa). Durante una perquisizione ai detenuti, che paradossalmente lo statuto dei CIE concepisce come “ospiti”, vengono sequestrate penne per scrivere, carte da gioco e bottigliette d’acqua ed è così che nei Centri si sviluppa il controllo totale, simbolo delle istituzioni totali. Il controllo totale non si risolve nella sola perquisizione, ma è costante nei Centri e si perpetua in tante e differenti maniere come con l’obbligo a vivere tutti insieme e a svolgere solo attività comunitarie prestabilite dallo staff. Tra gli “ospiti” di un CIE non esiste il concetto di tempo libero, perché in essi non è previsto un tempo impegnato.

Un CIE è composto da diverse aree, divise tra spazi femminili e maschili e le celle possono essere dei container, come in quello di Torino o delle vere e proprie gabbie, che fanno spesso assomigliare i centri a “zoo umani”. Nelle celle, dove i letti sono fissati al pavimento, le condizioni igieniche sono pessime e nessuno sembra curarsene. Capita allora, come accaduto nel 2007 a Torino, che un container dell’area femminile fosse infestato da piccioni, fatto che sembra collimare con ciò che Goffman definiva come processo di contaminazione del corpo dell’internato all’interno delle istituzioni totali (Goffman, 1968). Per il sociologo infatti, l’internato si trovava spesso in un ambiente sgradevole che non gli permetteva di vivere dignitosamente. Oltre alle condizioni igieniche, a volte, mancano anche quei servizi che dovrebbero essere garantiti da statuto come la presenza di mediatori culturali e interpreti o l’assistenza sanitaria. Paradossale rispetto al tema dell’assistenza sanitaria, nel CIE di Torino, è la funzione dell’area denominata “Ospedaletto”: essa ha infatti una duplice funzione, può essere impiegata come infermeria di primo livello o come cella di isolamento, facendo implicitamente scattare nei detenuti un senso di colpa nel richiedere assistenza medica. Di fronte a ciò, molti dei membri dello staff sembrano essere pervasi da quella che Hannah Arendt chiamava banalità del male e spesso non cogliendo gli aspetti disumanizzanti dei CIE, sono convinti di lavorare solo per il bene dei detenuti.


A determinate situazioni di degrado e di avvilimento però l’essere umano attiva sempre e inevitabilmente dei meccanismi di difesa e resistenza tesi a ricreare a prospettive migliori per il proprio sé. In psicologia si direbbe che l’individuo è in grado di attivare forme di resilienza attiva. Per resilienza si intende la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità. Tramite la resilienza un individuo ricostruisce una propria umanità e nei CIE si possono riscontrare differenti forme di resilienza che si potrebbero definire come individuali o ego-resilienti e collettive. Le forme di resilienza individuali sono quelle più difficili da analizzare perché toccano le sfere più individuali e intime della persona, ma tra quelle più visibili vi sono sicuramente l’aggrapparsi alla fede religiosa e la ricostruzione mentale tramite la lettura. In un CIE, un libro può ridisegnare prospettive immaginarie migliori e soprattutto rompere la routine imposta dagli ordini e dai tempi del personale.

Tra le azioni ego-resilienti, degne di nota furono quelle attivate a Torino dalle donne: le detenute, cercavano continuamente di costruirsi un proprio tempo e di ricreare all’interno del CIE momenti di vita quotidiana, cucinando e discutendo di qualunque argomento. Interessante era ciò che accadeva durante i fine settimana: le donne nei giorni di venerdì e sabato si truccavano e si vestivano più elegantemente rispetto al solito, fingendo appuntamenti e uscite serali. Tale strategia aiutava le detenute a sentirsi delle donne libere e ancora desiderabili. Per una donna abbellirsi e immaginare un appuntamento significava evadere dal CIE: un’evasione estetica, ma anche e soprattutto mentale. Se nelle azioni ego-resilienti, il discorso sulla visibilità era più complicato, nelle azioni resilienti collettive sembra non esserci questa difficoltà e anzi la visibilità sembra essere un elemento decisivo nella creazione e nella riuscita delle strategie resilienti. Il mostrare il proprio comportamento è infatti una costante dei detenuti di ogni CIE e l’aspetto resiliente, che si rende maggiormente visibile, è quello dell’autolesionismo. L’obiettivo dei detenuti è provocarsi dolore e ferite per farsi trasportare in ospedale, perché ciò significa e implica un’uscita dal CIE. Nei centri il farsi del male conduce a prospettive migliori e spesso per far cessare i dolori della prigionia si preferisce patire dolori fisici e rischiosi per la vita.

Parlando di autolesionismo vengono subito alla mente le rivolte delle bocche cucite al CIE di Roma, ma sono tante le forme di autolesionismo che avvengono all’interno delle celle. Una delle forme più comuni e più facile da realizzare per i detenuti è quella dello sciopero della fame. L’obiettivo è raggiungere livelli di sottopeso talmente alti da creare disfunzioni in tutto l’organismo per cercare e ottenere un ricovero in ospedale. Il fenomeno dell’autolesionismo però sembra essere non più una scelta, ma un destino e una extrema ratio a cui i detenuti, ormai privati della propria umanità scelgono di appoggiarsi per cercare una luce in fondo al tunnel. Una luce dolorosa, ma comunque in grado di ridare un po’ di colore a quegli oggetti vuoti, che una volta avevano la forma di corpi umani.
Tuttavia, l’autolesionismo nei CIE, per questa sua crudezza da azione resiliente sembra divenire inevitabilmente anche essa uno strumento del dominio totale ed è così che nei CIE l’uomo, privato della propria condizione, per riacquisirla è costretto a produrre azioni inumane come il mettere in pericolo la propria vita.

Nei CIE l’uomo nel dolore esce dalla polis e con il dolore cerca di rientrarvi.

12552709_10208490985814840_2887059633213851647_nMarco Anselmi

Info

 

 

 

Bibliografia

Arendt, H., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli, 1963

Augé M., Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, 2009

Dal Lago, A., Non persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999

Goffman E., Asylum, Torino, Giulio Einaudi editore, 1968

Rovelli M., Lager italiani, Milano, Rizzoli, 2006

Zweig S., Il mondo di ieri, Milano, Mondadori, 1994

Sitografia 

http://www.rc21.org/conferences/berlin2013/RC21-Berlin-Papers-2/24-Dardanelli.pdf

http://www.iuctorino.it/sites/default/files/docs/CIE_09_2012FV.pdf

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