Vi è mai capitato di fare un gesto gentile per qualcuno, solo perché non volevate che notasse la vostra rabbia? Avete compiuto quel gesto con spontaneità, o lo avete trovato difficile e faticoso?
Il problema di chi non ascolta le proprie emozioni è duplice. Prima di tutto, egli colpisce la propria identità personale, impedendosi di capire che cosa voglia e non voglia. “Chiudere un occhio” su ciò che stiamo provando può nuocere, se prima non si è riconosciuto cosa si sta provando davvero. Inoltre, la tendenza a sopprimere ciò che si prova ha un’elevata probabilità di danneggiarci anche a livello fisico. Solo per citare un esempio, è stato dimostrato come le donne affette da tumore alla mammella che inibiscono l’espressione delle emozioni negative (ansia, depressione, collera…) siano maggiormente inclini a ad una progressione più rapida nel tumore stesso (Jensen, 1987; Giese-Davis et al., 2006).
Ma facciamo un passo indietro: vi siete mai chiesti che cosa sia un’emozione?
E’ difficile definire qualcosa che colpisce le persone in modo così intenso e fisico, a volte incontrollabile, e che scandisce le loro vite in modo potente, definendo addirittura che scelte faranno. Banalmente, si potrebbero definire le emozioni positive, quando fanno sentire bene (felicità, euforia…), e negative, quando fanno sentire male (rabbia, tristezza, paura…). Una caratteristica bizzarra delle emozioni è che, in soggettiva, paiono immutevoli, eterne. In realtà, esse sono l’esatto opposto: stati transitori, colorano la giornata per poco tempo, anche se è probabile che una persona triste che pensi al proprio futuro lo immagini tinto di negatività.
In generale, si può dire che un’emozione è uno stato transitorio, mentale e fisiologico. Le reazioni d’ansia e di paura sono percepibili prima di tutto a livello fisico, con la sudorazione aumentata, il respiro corto, il battito accelerato… Ogni emozione ha correlati fisici. Il ruolo di questi stati è fondamentale nella nostra esistenza, poiché l’essere umano tenta costantemente di raggiungerne alcuni o rifuggirne altri: basti pensare a un tossicodipendente che usa eroina nell’intento di provare felicità e rilassatezza, o un bambino che evita di andare a scuola perché sa che i compagni lo prenderanno in giro e lo faranno sentire umiliato. E’ tramite queste scelte che si definisce un percorso di vita, e, di conseguenza, un’ identità.
Paul Ekman (2008) ha definito emozioni primarie (rabbia, paura, tristezza, gioia, sorpresa, disgusto e disprezzo) quelle tinte dello spettro emotivo che, indipendentemente da etnia, cultura e convinzioni personali, si mostrano in modo identico nei movimenti del viso. Le emozioni, prima di essere camuffate in comportamenti socialmente accettabili (come una risposta acida preferita ad uno schiaffo in faccia) sono universali, caratterizzano gli esseri umani in quanto tali. Tutti le sperimentano, e tutti, in qualche occasione, hanno tentato di nasconderle, o minimizzarle.
Perché si pongono filtri alle emozioni?
Come scrive Freud ne Il disagio della civiltà, per vivere in civiltà più sicure¹, l’essere umano ha dovuto cedere qualcosa di se stesso. Quel qualcosa è la libertà animalesca di fare ciò che egli vuole, quando lo vuole; è lo sfogo immediato delle sue pulsioni più primitive, soprattutto di quelle che, si potrebbe supporre, farebbero male agli altri. In altre parole, per vivere in pace con gli altri, le persone sono socialmente tenute a sopprimere parte delle proprie emozioni, e a interrogarsi su ciò che avverrebbe se le mostrassero in modo eclatante. Impariamo presto che le nostre manifestazioni emotive hanno delle conseguenze. La domanda fondamentale è se esista un confine tra l’atto necessario di filtrare le emozioni per convivere meglio con gli altri ed il rischio di soffocarle. E se sì, dove si trova? La risposta è più semplice di quanto non sembri: stiamo reprimendo le nostre emozioni quando non ci rendiamo conto di provarle.
Nel 1973, Sifneos coniò il concetto di alessitimia (letteralmente, “mancanza di parole per le emozioni”). Questa parola definisce la difficoltà di alcune persone a riconoscere (e, di conseguenza, riferire) le proprie emozioni. Nel momento in cui una persona alessitimica prova tristezza, può percepire sensazioni fisiche, come un nodo alla gola, ma non riuscirà a ricondurre tali sensazioni a qualcosa di mentale. In altre parole, sarà come se la mente e il corpo fossero due entità separate: la mente, ben rinchiusa dentro i confini del pensiero razionale; il corpo, portato a manifestare l’emozione tramite sintomi fisici. Questa espressione di stati mentali tramite un sintomo fisico, come il mal di testa o la nausea, permette di poter dire a se stessi e agli altri “non sono io, è il mio corpo”. E i sintomi del corpo, secondo la cultura occidentale, non sono controllabili. Avere mal di testa non dipende dalla volontà cosciente e non rientra, quindi, sotto la responsabilità dell’individuo.
La tendenza ad esprimere attraverso il corpo ciò che è soffocato dalla nostra mente cosciente non riguarda solamente le persone alessitimiche, ma l’intero ramo della psicosomatica. La psicosomatica è la disciplina che studia i legami tra lo psichico e il somatico, cioè tra i fattori psicologici e quelli fisiologici nell’origine e nel mantenimento delle malattie. Nessuna malattia è solo fisica o solo mentale: tutte le patologie sono la risultante finale di un insieme di fattori cellulari, personali/ interpersonali, e ambientali.
Per esempio, non è possibile considerare una dipendenza da sostanze solo in termini fisiologici (l’effetto della nicotina sui recettori cerebrali che porta alla ricerca della sostanza), poiché alla stessa abitudine del fumatore concorrono elementi di natura psicologica (come lo stress lavorativo), interpersonale (un collega che fuma spesso ed innesca l’abitudine), ambientale (la società rende disponibile l’acquisto legale del tabacco). In altre parole, ha senso chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina? Forse, ha più senso considerare tutte questi fattori nel loro insieme, in una visione olistica. Il corpo umano è una macchina meravigliosa, ma ha un grosso dono/ difetto: non sa mentire. Allora, forse, la risposta risiede proprio nell’atto di ascoltare i suoi sintomi, quelli che a volte si definiscono come malattie. Si potrebbe scoprire che un mal di testa non è affatto un sintomo di tumore cerebrale, ma di una dannata voglia di piangere.
¹Si potrebbe obiettare che, in società, il concetto di “sicurezza” è comunque relativo, ma questa relatività viene meno, quando paragoniamo al nostro mondo una realtà in cui l’omicidio o lo stupro sono tollerati da totale assenza di leggi.
Bibliografia
Dembroski, T.M., MacDougall, J.M., Williams, R.B., Haney, T.L., & Blumenthal, J.A. (1985). “Components of Type A, hostility, and anger-in: Relationship to angiographic findings”. In Psychosomatic Medicine, 47
Ekman, P. (2008). Te lo leggo in faccia. Riconoscere le emozioni anche quando sono nascoste. Editore Amrita, collana Scienza e Compassione.
Friedman, M., & Rosenman, R.H. (1974). Type A behavior and your heart. Knopf: New York.
Giese-Davis, J., DiMiceli, S., Sephton, S., & Spiegel, D. (2006). “Emotional expression and diurnal cortisol slope in women with metastatic breast cancer in supportive-expressive group therapy: A preliminary study”. In Biological Psychology, 73
Jensen, M.R. (1987). “Psychobiological factors predicting the course of breast cancer”. In Journal of Personality, 55