“Esposizioni etniche”, “zoo umani”, sono espressioni che ai più possono risultare sconosciute. Si tratta, infatti, di fenomeni per lungo tempo rimossi dalla memoria collettiva di un Occidente che si considerava senza colpe nella sua opera di dominio e civilizzazione dei popoli colonizzati.
Oggi, tali eventi, non possono più essere ignorati. Negli ultimi decenni, il lavoro di un gruppo di ricercatori (in primo luogo il gruppo di ricerca francese ACHAC) ha inaugurato un nuovo corso riportando alla luce una documentazione (composta da articoli di giornali, manifesti e foto d’epoca) che narra di storie intrise di razzismo, sopraffazione e indegno diritto di abuso.
Tutto ha inizio nel XVI secolo. A quel tempo era di gran moda esporre rarità biologiche e a tali spettacoli d’intrattenimento, non solo di carattere popolare ma presenti anche all’interno delle corti europee, il pubblico rispondeva con grande partecipazione per vedere i “monstrum¹”. Stiamo parlando dei cosiddetti freak show, meglio conosciuti come fenomeni da baraccone. Protagonisti di tali esibizioni erano persone affette da una qualche deformità anatomica: i gemelli siamesi, l’uomo più alto del mondo, l’uomo senza gambe e così continuando, con un ampio assortimento di rare curiosità.
Il Cinquecento fu, inoltre, il secolo delle grandi scoperte geografiche a partire dal continente americano. Da poco, infatti, Cristoforo Colombo era rientrato in Spagna portando con sé tabacco, pappagalli, indios taino (popolazione amerindia abitante dei Caraibi) e schiavi; seguirono Amerigo Vespucci e Hernán Cortés con al seguito, rispettivamente, schiavi e giocatori di palla aztechi.
Nel Settecento ebbero poi luogo i viaggi alla scoperta dell’Oceano Pacifico e da qui, James Cook e compagni, tornarono in terra inglese con esemplari di nativi polinesiani.
Fu così che, negli anni che seguirono, accanto alle già discusse Wunderkammern (camere delle meraviglie), la curiosità andò oltre l’interesse per l’oggetto esotico e si estese all’essere umano, o meglio al popolo, così selvaggio e incivile, con i suoi strani costumi o la parziale assenza di essi.
I primi indigeni, provenienti da ogni parte del mondo, arrivarono in Europa e “offerti” alla pubblica visione in salotti borghesi allestiti per l’occasione. E’ il caso di Sarah Baartman, la “Venere ottentotta”, una donna boscimana (gruppo etnico oggi chiamato Khoisan), che oltre ad essere stata esibita e scrutata da scienziati per forme e particolari intimi, alla sua morte le furono prelevati genitali e cervello, in seguito esposti insieme al suo scheletro.
Uomini dal forte senso per gli affari, ma privi di scrupoli, cominciarono a procacciare individui (che chiameremo “tipi autentici”: portatori di caratteri fisici e comportamentali che ci si aspettava di vedere) per mostrarli a coloro che si consideravano al sommo della civiltà. Nacquero, così, le prime “etno-esposizioni” che, più esattamente, vengono definite “viventi”: «Queste esposizioni vanno infatti ben distinte da altre forme, diffuse in culture di ogni tipo, di trattamento/esposizione post mortem del corpo umano […]. In questa sede ci riferiamo a messe in mostra di persone in carne e ossa e perfettamente in vita: gesti di controllo del corpo fisico di “diversi” attraverso non solo la costrizione fisica, ma anche mediante l’atto visivo del superiore che dall’esterno controlla attraverso lo sguardo osservante» [Abbattista, 2013:29].
L’ideatore degli zoo umani fu Carl Hagenbeck, commerciante di animali selvaggi, che dal 1875 circa propose la tipologia di esposizione “animali + uomini”. Nel corso degli anni ingaggiò eschimesi, lapponi, fuegini, aborigeni australiani, mongoli, sioux, bellacoola, samoani, somali, masai e altri individui appartenenti a vari gruppi etnici. Luoghi simbolo del fenomeno espositivo umano furono i Giardini Zoologici, tra i più frequentati il parigino Jardin Zoologique d’Acclimatation.
La documentazione sugli ethno-show registra, però, la nascita di questi spettacoli precisamente nel 1851, anno dell’Esposizione Universale di Londra. Da quel momento, le Expo diventarono teatro dei più grandi allestimenti di villaggi indigeni.
Storie e destini di molteplici individui si sono intrecciati sullo sfondo di questi scenari. In realtà, un numero elevato di uomini, donne e bambini non sopravvisse ai viaggi intercontinentali, soprattutto a causa dell’incontro con i batteri europei contro i quali non avevano sufficienti difese (molti, infatti, furono stroncati dal vaiolo).
Raccontare tutte queste storie sarebbe impossibile, ma in rappresentanza si ricordano due dei casi più drammatici ed esemplari:
- Ota Benga, il pigmeo morto suicida nel 1916 dopo più di dieci anni trascorsi tra una gabbia e l’altra accanto alle scimmie. Non era necessario che facesse alcunché in quel recinto, era sufficiente che fosse nero, di bassa statura e con i denti limati e aguzzi (segno distintivo della sua tribù). Alcuni reverendi di colore accesero un faro di attenzione sulla sua condizione e riuscirono a portarlo in un orfanotrofio. Con una protesi gli coprirono i denti limati per evitargli di subire la morbosa curiosità della folla, ma quest’opera di “normalizzazione” non sortì l’effetto sperato: Ota Benga decise di mettere fine al suo dolore con un colpo d’arma da fuoco;
- Ishi, l’ultimo sopravvissuto degli Yahi, indiani della California settentrionale, divenne nel 1911 un vero e proprio reperto vivente nel Museo di Antropologia di San Francisco. Dopo la sua morte, avvenuta per tubercolosi, l’antropologo Alfred Kroeber si trovava in Europa e scrisse una lettera affinché l’amico Ishi fosse cremato e sepolto con cinque frecce, punte di ossidiana, faina e ghiande (secondo il rituale funebre della sua tribù). Tuttavia, l’antropologo non poté evitare che il cervello dell’uomo fosse donato allo Smitshonian Institution; solamente nel 2000 fece ritornò nella sua terra, in luogo segreto
Qual è stato il ruolo dell’Italia in tali vicende?
Se consideriamo il dominio del nostro paese in terra d’Africa, possiamo ben immaginare che anche sul suolo italiano si siano verificati tali eventi. Nel 1884 a Torino, nel Parco del Valentino, fremeva l’organizzazione dell’Esposizione Generale Italiana. Quale migliore occasione? «Questa fu la reale funzione degli zoo umani: stabilizzare l’idea del primato della razza bianca, del suo diritto a dominare le razze inferiori, e convincere l’opinione pubblica occidentale della necessità di occupare le terre abitate da quasi-uomini e trasformarle in colonie» [Domenici, 2015:24].
E così, un gruppo di uomini della colonia di Assab (Eritrea) fu tra i primi ad essere esposto sul suolo italiano in villaggi ricreati ad hoc. «Si indispettivano, registrava dopo pochi giorni una cronaca certamente simpatetica verso l’esposizione, degli sguardi curiosi della folla, dicendo di non voler essere guardati come bestie feroci» [Abbattista, 2013:152].
É doveroso citare anche quelle redazioni che si espressero nettamente in disaccordo circa gli eventi in corso. Ad adottare questa posizione controcorrente fu, ad esempio, la Gazzetta piemontese. Quest’ultima disapprovò la curiosità senza ritegno dei visitatori e prese, inoltre, le distanze dal Comitato Esecutivo proprio sulla questione del trattamento riservato agli Assabesi, sino ad invocare piena parità di diritti. Lo storico Abbattista ci riporta il dibattito consumatosi a mezzo stampa:
«Purtroppo è vero che il Comitato Esecutivo, dimenticando che nel programma dell’Esposizione generale di esposizioni vive non c’erano che quelle dei bovini, suini, cani e animali da cortile, ha anche fatta una esposizione viva di Assabesi, sudditi italiani, assimilati dalla legge agli altri cittadini del Regno. Esso li ha esposti e li ha messi in giro come tante bestie feroci da far vedere in serraglio». La risposta non tardò. Il 25 luglio sul foglio romano Fanfulla apparve un articolo anonimo di cui si riporta uno stralcio: «La Gazzetta piemontese, in un quarto d’ora di cattivo umore, se la piglia coi visitatori dell’Esposizione e colla cittadinanza di Torino, per la sfrenata curiosità colla quale perseguitano e tormentano i nostri connazionali assabesi. Noto che la connazionalità non ce la metto di mio; ce la mette la Piemontese. […] Io, veramente, a codesta specie di parentela ci tengo assai poco. Tutt’al più, mi adatterei alla principessa Nelika per cameriera, a condizione però che si abituasse a non tenersi i piedi in mano e a fare a meno di quella campanella d’avorio che porta gentilmente attaccata al naso. In quanto agli altri concittadini, io li regalo volentieri alla Piemontese» [Abbattista, 2013:158-159].
Oggi diremmo che le etno-esposizioni sono scomparse, ma in realtà non è così. A ben guardare c’è un fenomeno che sembra ricalcare gli avvenimenti del secolo scorso con lo stesso sguardo inquisitorio unito alla mai estinta curiosità per ciò che è considerato “strano” o “diverso”: si tratta del turismo etnico. Se non è l’indigeno a venire dall’uomo bianco, è l’uomo bianco a viaggiare per scrutare l’indigeno nella sua terra. Questa attività è molto diffusa e spesso i turisti ignorano del tutto i rischi (per gli indigeni!) e gli interessi (politici e a sfavore dei nativi) che sottendono alle dinamiche etno-espositive odierne.
Al grido “Venghino, siori, venghino!” la folla accorre. Anche nelle trasmissioni televisive, alcuni show continuano a sfruttare il binomio alterità-curiosità per fare audience. Si pensi a “Lo show dei record” e alla spettacolarizzazione delle malformazioni fisiche. «C’è da chiedersi chi, tra organizzatori, presentatori e pubblico, si meriti il record della disumanità» [Domenici, 2015: 262].
¹ Prodigio, fatto o fenomeno portentoso, eccezionale, in senso sia positivo sia negativo, e riferito anche a persona che riveli qualità, buone o cattive, oltrepassanti i limiti della normalità http://www.treccani.it/vocabolario/monstrum/
Bibliografia
Abbattista G., Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880 – 1940), Edizioni Università di Trieste, Trieste, 2013
Domenici V., Uomini nelle gabbie. Dagli zoo umani delle Expo al razzismo della vacanza etnica, Il Saggiatore, Milano, 2015
Franceschi, Z., A., Storie di vita. Percorsi nella storia dell’antropologia americana, Clueb, Bologna, 2006
Stella G., A., Negri, froci, giudei & Co., Rizzoli, Milano, 2009
Sitografia
https://www.achac.com
David Philippe, “55 ans d’exhibitions zoo-ethnologiques au Jardin d’Acclimatation”:
http://doczz.fr/doc/1101842/philippe-david–55-ans-d-exhibitions-zoo