Attacchi e uccisioni degli albini sono diventati, nell’ultimo decennio, una vera e propria “emergenza sociale” in Tanzania che ha visto attivarsi diversi attori sociali (attivisti, madri, bambini, eccetera) per ottenere diritti e benefici prima preclusi agli albini e avviando un processo di ripensamento della persona albina in quanto “essere umano”.
Zeru-zeru è il nome con cui vengono tradizionalmente chiamate le persone albine in Tanzania, termine generalmente tradotto come “fantasma”, anche se la traduzione ufficiale che ne danno i dizionari è “albino”. Stando a differenti esperienze sul campo e alla letteratura antropologica (si veda ad esempio il lavoro di Brocco del 2015), la parola ha per alcuni una connotazione neutra per altri una forte connotazione negativa, acquisita, probabilmente, con le campagne di sensibilizzazione alla condizione delle persone albine in seguito ai primi omicidi avvenuti fra il 2007 e il 2008.
Negli ultimi anni, in Tanzania e, più in generale, negli stati dei Grandi Laghi, si è vista una proliferazione di ONG e di istituzioni internazionali che hanno promosso l’immagine della persona albina come individuo con disabilità bisognoso di aiuti umanitari [cfr. Fassin, 2011] e protezione da attacchi, rapimenti e uccisioni. In tutto il paese sono state promosse campagne di sensibilizzazione, interventi biomedici (come la consegna i filtri solari, cliniche mobili per controlli oftalmologici e dermatologici, interventi chirurgici gratuiti) e iniziative del governo tanzaniano e delle istituzioni governative internazionali. Ciò ha contribuito a creare una forte identità di gruppo sostenuta da una parte dalle spiegazioni e dalle necessità biomediche legate alla condizione dell’albinismo, dall’altra dall’intreccio dei valori morali e religiosi locali alle idee alla base diritti umani connessi alle questioni che riguardano lo stesso.
Secondo le classificazioni biomediche, l’albinismo si riferisce a un gruppo di condizioni fra loro correlate che risultano da una mutazione genetica e causano una ridotta produzione di melanina. I principali problemi di salute in cui incorrono sono il cancro della pelle, il nistagmo, la fotofobia, l’ipovisione e altri problemi alla vista che possono portare alla cecità. Se queste complicanze possono essere prevenute indossando occhiali scuri e/o da vista, un abbigliamento adeguato e con l’uso quotidiano di una crema anti-attinica, queste accortezze divengono difficili da seguire in Tanzania (o nel resto dell’Africa e in altri paesi del Sud del Mondo) dove i più fortunati riescono a reperire gli occhiali da sole che i turisti e i volontari portano dall’Europa e dall’America (e che spesso non sono adatti a occhi fotosensibili), le protezioni solari che lasciano una volta finito il soggiorno o fornite dalle organizzazioni non governative.
Oltre ai problemi di salute, tuttavia, gli albini sperimentano difficili condizioni di vita in gran parte del mondo, primariamente per il loro aspetto fisico non convenzionale, e vengono stigmatizzati e marginalizzati dalla società, giacché «il più grande impedimento al riconoscimento a pieno titolo di una persona nella sua società non sono tanto i suoi difetti, quanto il tessuto di miti, paure e incomprensioni che la società attribuisce loro» [Murphy 1995:140, in Wan, 2003: 278]. Così spesso, e non solo in Tanzania, alle persone albine non è riconosciuta neanche l’umanità e/o alcuni diritti sociali, come ad esempio sposarsi [cfr. Witkop, 1975, in Wan, 2003]. In diversi paesi africani, inoltre, è credenza comune che avere un coito con una donna albina possa curare un uomo dall’HIV/AIDS, e ciò ha causato un aumento degli stupri e della diffusione dell’HIV/AIDS fra le donne albine. Sono credenze attuali, difficilmente collocabili in una o un’altra classe sociale, che spesso mancano di dati statistici o dalle fonti incerte, come sia la letteratura sia i dati etnografici dimostrano.
Contrariamente alle aspettative, lo sviluppo economico, l’urbanizzazione, l’introduzione di nuove pratiche e ideologie, anche attraverso i mass media, nonché la diffusione del cristianesimo e l’Islam, non hanno posto fine a credenze e pratiche legate alla stregoneria. Piuttosto che dissolversi nella modernità, infatti, la stregoneria ha trovato il modo di adattarsi e di ricollocarsi nel mondo africano come prodotto della modernità postcoloniale e reazione ai cambiamenti socio-economici legati al capitalismo e alla globalizzazione [cfr. Comaroff – Comaroff, 1993; Geschiere, 1997]. La diffusione dell’Aids, le crisi economiche, l’emarginazione sociale, l’emergere di nuove élites cittadine, la rottura con la comunità rurale d’appartenenza hanno comportato in molte parti dell’Africa una ripresa e una ricarica semantica del linguaggio della stregoneria, attraverso la ricerca dei colpevoli della povertà e del disagio [cfr. Comaroff – Comaroff, 1993]. La stregoneria assorbe allora le contraddizioni della modernità, cercando, talvolta positivamente, più spesso con la violenza, di affrancare le persone perché possano imporre un (minimo) di controllo su un mondo in continuo cambiamento. Come scrivono Fisiy e Geschiere, la “stregoneria moderna” si relaziona con il potere, con la sua acquisizione in ambito politico ed economico e con l’accumulazione di beni materiali, spesso ottenuti con mezzi discutibili [cfr. Fisiy – Geschiere, 1993].
È in questo senso che si potrebbero leggere gli attacchi agli albini, seguendo quei discorsi, propri di una classe media cittadina, spesso legata all’attivismo o alla cooperazione umanitaria, che le collegano alla lotta di potere fra i due principali partiti tanzaniani e che hanno visto nell’aumento degli attacchi nel 2015, alle porte delle ultime elezioni presidenziali, la conferma della loro teoria. Le uccisioni degli albini sarebbero iniziate quando, in seguito alle elezioni presidenziali del 2005, i sostenitori e politici dello storico partito d’opposizione, pur avendo perso, hanno visto la possibilità di ribaltare i giochi politici. Bisognosi di acquisire potere e denaro per perseguire i propri scopi, hanno trovato risposta nei riti e negli amuleti dei wachawi (stregoni) contenenti parti del corpo degli albini. Questi, già nel passato ritenuti esseri magici, fantasmi, o comunque esseri non umani, sono considerati catalizzatori di potere e fortuna, soprattutto fra i cercatori di minerali, i pescatori delle industrie limitrofe al Lago Vittoria e i facoltosi uomini d’affari tanzaniani, cosicché i loro arti e il loro sangue hanno acquisito un altissimo valore nel mercato dell’occulto. Nel clima di disordine e paura venutosi a creare con gli attacchi degli ultimi anni nella comunità albina, il riconoscimento della propria condizione come disabilitante e, quindi, della persona albina come persona con disabilità, ha contribuito a diffondere le spiegazioni biomediche e a contrastare la stigmatizzazione degli albini, anche quando dovuta alle credenze tradizionali e a creare, almeno in parte, solidarietà nei loro confronti. Tuttavia, se ha in parte attenuato la diffidenza per l’individuo “diverso”, non ha cancellato la paura per chi stava (e sta) dietro la caccia agli albini, persone connesse al mondo della stregoneria e quindi capaci di ferire e distruggere, frenando espressioni e atti di solidarietà nei loro confronti [cfr. Sciarrino, 2017].
A questo proposito, non sono state incoraggianti alcune politiche governative finalizzate a contenere il problema degli attacchi agli albini attraverso pratiche di protezione e istituzionalizzazione che hanno coinvolto in primo luogo i minori, concentrati in istituti e boarding schools, con azioni che fanno emergere come la gestione della condizione degli albini e i modi in cui sono state riconosciute come persone sofferenti, da un punto di vista sia biomedico sia sociale, siano realtà politiche e sociali complesse e foriere di contraddizioni. Se, infatti, la soggettività dei bambini albini si è venuta a creare intorno al problema della “caccia all’albino” e alle risposte che ne hanno dato organizzazioni e istituzioni locali, nazionali e sovrannazionali, la loro istituzionalizzazione si configura come una strategia di sopravvivenza che ne legittima le ineguaglianze sociali e la marginalizzazione. Come sostiene Paula Saravia nel suo lavoro del 2013 sulla tubercolosi in Bolivia, la malattia pone il soggetto in una posizione ambigua attraverso un meccanismo “double-bind”, in quanto se da una parte include poiché attiva processi di medicalizzazione statali di cui il soggetto è il legittimo beneficiario, dall’altra promuove condizioni stigmatizzanti, che pongono il soggetto al margine della vita sociale. Una situazione per molti versi simile a quella che vivono le persone e, soprattutto, i bambini in Tanzania, i quali nel momento in cui sono riconosciuti come individui disabili e a rischio, vengono inseriti in un’anagrafe preposta e gestita dalla TAS (Tanzania Albino Society) e vengono affidati agli istituti preposti.
Se pur brevemente, in questo articolo abbiamo visto come il problema della caccia agli albini produca sfaccettature di dinamiche anche in contraddizione fra loro, ma che offrono interessanti chiavi di lettura dei mondi contemporanei. Le società, infatti, rivelano molto di sé nel modo in cui gestiscono alcuni fenomeni complessi e contraddittori. Non a caso, come scrive Mariella Pandolfi, il corpo è «un’arena politica privilegiata dove poter e dover combattere ogni tipo di battaglia identitaria» [Pandolfi, 2003:141], poiché «là dove c’è potere c’è resistenza» e questa «non è mai in posizione di esteriorità rispetto al potere» [Foucault, 2013:75].
1 Scritta: “Komesha mauaji ya albino (interrompere gli omicidi degli albini) riportata sui cappelli dei bambini albini affidati ad un orfanotrofio
2 La registrazione all’anagrafe della TAS è generalmente l’unica in cui il bambino albino è inserito, perché, benché sia obbligatorio, pochi genitori, alla nascita del bambino, soprattutto quando il parto avviene in casa, iscrivono i figli all’anagrafe.
Bibliografia
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