In Occidente i media, attraverso le pubblicità dell’UNICEF o di Save the Children, o film come Slumdog Millionaire (2008) e Tsotsi (2005), hanno reso popolare l’immagine di bambini che lavorano e vivono sulla strada: ragazzini che dormono accucciati gli uni agli altri sui marciapiedi, lo sguardo disperato e i vestiti stracciati sono diventati una delle «immagine emotive» [Veale, Taylor, Linehan, 2000] degli ultimi decenni, in cui emerge l’implicito messaggio dell’abbandono fisico e morale da parte dei famigliari e della società in cui loro vivono. Quello dei bambini di strada è solo un esempio di come nella nostra «sfera pubblica» [Dei, 2009:133] il rapporto con gli “altri” passi attraverso il discorso umanitario, che, facendo appello a valori posti molto in alto nella moralità contemporanea, abbia goduto a lungo di una sorta di immunità critica tanto nello spazio pubblico quanto in quello scientifico. Si definisce tale paesaggio morale “umanitarismo”.
Come sostiene Fassin in Humanitarian reason (2011), peculiarità dell’umanitarismo occidentale sono due elementi: da una parte la sacralizzazione della vita umana, reso valore superiore da contrapporre alla sovranità degli Stati; dall’altra, la volontà di tradurre il governo umanitario in un’impresa planetaria, così come lo era stato a suo tempo il progetto coloniale [cfr. Fassin, 2011]. Ritornare all’esempio iniziale dei bambini di strada può agevolarci nella comprensione di alcuni passaggi.
L’osservatore attento avrà già notato che l’immagine emaciata dei bambini di strada ben si distanzia dall’idea corrente occidentale di un’«appropriata infanzia» [Panter-Brick, 2000], per cui un bambino dovrebbe condurre un’esistenza sicura, felice, ricca di coccole e cure da parte degli adulti, in un ambiente domestico, l’unico in cui, come essere innocente, può crescere nel pieno del suo potenziale, protetto e guidato dagli adulti, divenendo egli stesso un adulto di successo ed in salute [cfr. James, Jenks e Prout, 1998].
Ragionando con Panter-Brick un nodo saliente di questa nozione di infanzia può essere trovato nell’enfasi posta sulla responsabilità genitoriale, sia economica che morale, che, in caso non possa essere assunta da persone legate al bambino, ci si aspetta che passi alla società, in questo caso rappresentata (almeno formalmente) dal governo e dai suoi rappresentanti e dalle organizzazioni non governative, spesso straniere. Numerose organizzazioni non governative dedicano la loro azione ai bambini di strada, creando istituti in cui vengono presi in carico, scolarizzati e socializzati.
Le pratiche istituzionali che contraddistinguono la presa in carico del minore fanno emergere situazioni in cui gli attori sperimentano cambiamenti del proprio contesto di vita, nonché nuovi tipi di relazioni, in cui i modi di vita locali si scontrano con ideologie, valori e prassi introdotti da cooperanti e organizzazioni occidentali. In un articolo del 2002, riferendosi al problema delle donne afghane “salvate” dai militari statunitensi, Abu-Lughod rifletteva sulla costruzione della persona come soggetto che deve essere salvato, soffermandosi sulla violenza e sul paternalismo, ritenuto da Kant il peggiore dei dispotismi, radicati nell’idea stessa che qualcuno abbia bisogno di essere salvato: «Quando salvi una donna, sottintendi che la stai salvando da qualcosa. La stai anche salvando da qualcosa a cui appartiene» [Abu-Lughod, 2002:788]. Salvare una persona implica l’idea che la si liberi perché possa abbracciare modi di essere e di pensare ritenuti migliori.
Ma quali violenze comporta questa trasformazione? Con quale presunzione si ritiene che vi siano forme di vita migliori di altre?
Le missioni portate avanti per salvare le donne afghane, continua Abu-Lughod, sono connessi a un senso di superiorità propria degli Occidentali. Operando una rottura violenta o, con Spivak, una «violenza epistemica1» [Spivak, 1995, 2004] sui sistemi di segni e di valori, sulle rappresentazioni del mondo, sull’organizzazione della vita e della società, l’Occidente ha trasformato lo spazio dell’Altro in modo da poter essere portato all’interno di un mondo costruito dall’eurocentrismo. “Worlding of a world” è il modo in cui Spivak definisce il processo attraverso il quale l’Occidente si è consolidato e costituito come soggetto sovrano su scala globale, imponendo, attraverso varie strategie, uno specifico modo di rappresentare la realtà e di affermare un sistema di valori uniforme [Spivak, 1995]. Uno di questi è certamente riconoscibile nel rifiuto della Commissione ONU di accogliere i principi del relativismo culturale proposti da Herskowitz in nome dell’American Anthropological Association nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948. Nello “Statement on Human Rights”, Herskowitz riteneva che se costumi e valori sono connessi alla cultura in cui si sviluppano, il rispetto dei diritti individuali avrebbe dovuto implicare quello per le differenze culturali. Una dichiarazione dei diritti universale (ma non etnocentrica) avrebbe dovuto tenere conto della legittimità, per gli esseri umani, di pensare e agire in conformità alle credenze, ai costumi, ai codici morali della propria cultura [Herskowitz, 1947: 541].
Come conseguenza di queste asserzioni, assistiamo a fenomeni di esportazione di valori e diritti “universali” sostenute dalle diverse organizzazioni non governative. Questi sono, oggi, i principali portatori dell’umanitarismo, un sentimento morale che nasce da un nuovo modo di vedere il mondo, in cui il «senso di responsabilità» [Calhoun, 2008: 75] per il benessere altrui trascende le distanze geografiche, dando l’illusione che comprensione e solidarietà possano affrancare dalla povertà e dalla sofferenza, e rendere più sopportabili le ingiustizie. Tuttavia, indipendentemente dalle intenzioni genuine degli operatori, l’umanitarismo crea un rapporto impari fra chi dà e chi riceve aiuto2. L’esistenza delle vittime viene messa a nudo, lo stigma della povertà accentua quello della disgrazia, provocando un ambiguo sentimento di pietà nei soccorritori, che non sfugge a chi riceve aiuto [cfr. Fassin, 2012]. La “ragione umanitaria” [ibidem] si costituisce, dunque, su una rete di paradossi, in cui il senso morale è preso dalla tenaglia della compassione e della repressione.
Non è un caso se Ong, nel suo studio sui migranti cambogiani negli Stati Uniti, parla di «compassionate domination» e afferma che, talvolta, gli interventi a favore dei migranti ricalcano strutture simili al filantropismo coloniale3: gli operatori umanitari, scrive, introducono specifiche tecnologie di governo che orientano e formano il comportamento quotidiano dei rifugiati (che generalmente vengono da situazioni di disagio), trasformandoli in “moderni esseri umani” adatti a vivere nelle democrazie liberali occidentali [cfr. Ong, 2003]. «Come sosteneva Foucault, gli obiettivi della riforma penale erano “non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità attenuata forse, ma per rendere la punizione pervasiva e inevitabile; affondare più profondamente nel corpo sociale il potere di punire”. Transizioni simili hanno avuto luogo in altre dimensioni della vita sociale, inclusa la carità» [Calhoun, 2008:77]. Riprendendo il pensiero di Foucault a proposito della riforma penale, Calhoun asserisce che l’umanitarismo contemporaneo ha acquisito nuove forme organizzative e di azione, cercando modi più efficienti, pervasivi ed universali di “fare la carità”.
Detto in altre parole, l’umanitarismo potrebbe promuovere nuovi modi di essere e di pensare, negandone altri e creando nuove soglie di valutazione della persona.
1 La nozione da Spivak, che per certi aspetti si ricollega al concetto di violenza simbolica elaborato da Bourdieu, trova similitudini nel pensiero filosofico politico contemporaneo sui diritti ad esempio nel concetto di preferenze adattive discusso, tra gli altri, da Nussbaum o nell’idea di Latouche di colonizzazione dell’immaginario.
2 Già Mauss lo aveva descritto come fatto sociale sempre ambiguo , assolutamente non gratuito, poiché se non ricambiato genera una asimmetria di status tra chi fa e riceve, definendo una sorta di supremazia a carico di chi è l’azione di donare verso colui che ricevono il dono.
3 Sfogliando i dépliant pubblicitari delle varie organizzazioni non governative, è difficile non associare le immagini dei medici con il loro camice bianco che visitano un esile bambino africano alla foto della Exposition d’Angers del 1906 [Minelli, 2003:409], che Beneduce descrive come “il ritratto della filantropia”, in cui i medici sono ritratti mentre vaccinano, “eroi di quella scienza medica che rappresentava una delle ragioni del dominio coloniale” [2007: 39], di quell’impegno filantropico che sarebbe diventato l’umanitarismo contemporaneo [ibidem].
Bibliografia
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Beneduce, R., Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Roma, Carocci, 2007
Calhoun, C. “The imperative to reduce suffering: charity, progress, and emergencies in the field of humanitarian action”, in Barnett, Michael, Weiss, Thomas G., (a cura di), Humanitarianism in question: politics, power, ethics, Ithaca, New York, Cornell University Press, 2008
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Fassin D., Humanitarian Reason. A Moral History of the Present, Berkeley, University of California Press, 2011
Herskowitz, M., “Statement on Human Rights”, in American Anthropologist, 49, 4, 1947
James A., Jenks C., Prout A., Teorizzare l’infanzia, per una nuova sociologia dei bambini, Roma, Donzelli, 2002
Mauss M., Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Torino, Einaudi, 2002
Minelli, M., “Colonialismo, orientalismo e irriducibili differenze” corporee. A proposito di Zoos humanis, industria dello spettacolo e scienze umane tra Otto e Novecento”, in AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 15-16, 2003
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Spivak, G. C., Critica della ragione postcoloniale, Roma, Meltemi, 2004
Veale A., Taylor M., Linehan C., “Psycological perspective of ‘abandoned’ and ‘abandoning’ street children”, in Panter-Brick C., Smith M.T., (a cura di), Abandoned children, Cambridge University Press, Cambridge, 2002
Videografia
Slumdog Millionaire, diretto da Boyle Danny, 2008
Tsotsi, diretto da Hood Gavin, 2005