Ibridi tra uomini e pesci hanno permeato la fantasia degli esseri umani in quasi tutte le civiltà e in quasi tutte le epoche. Dalle sirene di Ulisse al più recente film di Guillermo del Toro, The Shape of Water, dall’amore non corrisposto di Andersen al celebre film della Disney La Sirenetta, passando per serie televisive e rappresentazioni più o meno malvagie di queste mitiche creature, come nei Pirati dei Caraibi: Oltre i confini del mare o in Una Sirena a Manhattan, gli uomini sono sempre stati affascinati dalla possibilità di conoscere le proprie controparti degli oceani.
Sul web, tutt’oggi, continuano ad emergere filmati “testimonianza” tanto che nel 2009 venne offerta, nello stato di Israele, una ricompensa di quasi un milione di dollari per chiunque riuscisse a fotografare l’elusiva sirena di Kiryat Yam, già avvistata più volte [cfr. McGregor-Wood, 2009].
Il 27 maggio del 2012, il network Animal Planet mandò in onda il documentario, allora presentato come reale, Mermaids: The Body Found, nel qual viene presentata l’esperienza di un team di scienziati che cerca di ricostruire la storia di una possibile “scimmia marina”. La docufiction, grazie a delle plausibili ricostruzioni storiche e filmati credibili di ritrovamenti recenti, portò al canale un’enorme quantità di spettatori e suscitò immediatamente scalpore visto che molti credettero fosse basato su prove concrete [cfr. Davidson, 2013]. In The Body Found le sirene della tradizione vengono reinventate e immaginate non più come attraenti donne dalle lunghe chiome, ma come un’evoluzione di un ominide simile a un lamantino dal pollice opponibile. Successivamente, la veridicità del documentario fu smentita dagli stessi creatori, tuttavia ciò non fermò la fascinazione nei confronti di sirene, tritoni e tutti quegli esseri che possono rientrare nella cosiddetta dicitura di merfolk (“popoli del mare”). Tra le selkie scozzesi, le merrows irlandesi, le sirene di Ulisse e i finfolkaheem norvegesi, questi ibridi hanno popolato le storie, i miti e il folklore per centinaia di anni e continuano ad affascinare e ad ammaliare lettori, spettatori e popolazioni di tutto il mondo [cfr. Centini, 2013; Finklea, 2016].
Una rappresentazione classica delle sirene è quella che viene proposta all’interno di un noto passo dell’Odissea (canto XII, vv. 51-213), dove l’acheo dall’insaziabile sete di conoscenza si fa legare a un albero della nave pur di poterne ascoltare il canto. «Da allora, la sirena avrà una doppia valenza: sarà pericolosa e docile, demone e angelo, amante e assassina, essere impossibile e nello stesso tempo riconducibile alle altre creature del regno animale» [Centini, 2013:79].
Tuttavia, l’origine dei miti relativi a questi esseri rimane al giorno d’oggi controversa.
Partendo dall’etimologia (che mentre nel termine anglosassone mermaid trova una sua fonte nell’inglese arcaico mermayde, che significa letteralmente “ragazza del mare”), il termine “sirena” potrebbe avere varie origini:
- dal latino sirena, a sua volta tratto dal greco σειρήνα, la cui etimologia potrebbe derivare da termini che significano “laccio” “catena” o “legare con corda”, per indicare il sortilegio della strega del mare;
- da un termine greco che significa “bruciante”, per indicare il sole che colpisce gli uomini durante la bonaccia, momento in cui si pensa le sirene attacchino più ferocemente;
- dall’ebraico sir (“canto”).
Sebbene si possa essere sicuri dell’appartenenza delle sirene al mondo classico e della loro natura ibrida, l’aspetto di queste donne è incerto: infatti, essendo degli esseri molto noti alla popolazione dell’epoca, nell’Odissea viene dato per scontato e non vengono mai descritte. Tuttavia, grazie ad altre opere classiche, come le Argonautiche, si può risalire a un’immagine della sirena classica certamente differente da quella alla quale siamo abituati: le sirene che affrontano i protagonisti dei due poemi sono infatti per metà uccelli, quindi molto più simili alla raffigurazione dell’arpia che di un essere che è metà donna e metà pesce.
Una delle prime descrizioni che mostra la transizione della creatura da ibrido ornitomorfo a donna-pesce risale ai secoli VII-IX e si trova nel Liber monstrorum: «le sirene sono fanciulle marine che ingannano i naviganti con il loro bellissimo aspetto e allettandoli col canto; e dal capo e fino all’ombelico hanno il corpo di vergine e sono in tutto simili alla specie umana; ma hanno squamose code di pesce che celano sempre nei gorghi» [cfr. Porsia, 2012; Centini, 2013:79-85]. Come da donna-uccello si sia passati nel Liber a donna-pesce è ancora un mistero; ad oggi, le ipotesi più accreditate sono due: un errore di trascrizione (pennis a pinnis, “penne” a “pinne”) oppure una successiva versione del mito che narra della disfatta delle sirene sconfitte da Ulisse, le quali, per disperazione, si gettarono in mare e si trasformarono in pesci [ivi, p. 85].
In seguito, in epoca paleo-cristiana, la figura della sirena, avvolta nella sua aura di mistero e pericolosità, venne associata a elementi demoniaci. Mentre Clemente Alessandrino (II secolo) le descrisse come l’incarnazione del male, la Chiesa già vedeva in questo essere ibrido ricoperto di squame il simbolo del peccato che veniva reso esplicito dalle loro “deformità”. Un altro elemento che il Cristianesimo associò a questi esseri fu quello della sessualità e della lussuria [ivi, p. 85-89].
È ormai risaputo, grazie a leggende, letteratura, pellicole cinematografiche e film d’animazione, che le sirene non sono soltanto né solamente esseri malvagi che portano i marinai alla loro morte certa, né si limitano a essere soltanto degli esseri “femminili”. Anche se meno noti e più comunemente conosciuti come tritoni, infatti, nel folklore mondiale sono da sempre stati presenti una serie di esseri ibridi fra uomini e pesci dal “sesso” maschile. Con il termine tritone, solitamente, «si indica una creatura allegorica che rintracciamo nell’iconografia soprattutto a partire dal Manierismo e che ha spesso la sua cornice principale nelle fontane monumentali» [ivi, p. 103]. Un esempio etnologico è il Dio d’acqua dei Dogon del Mali, popolazione studiata nella prima metà del XX secolo da Marcel Griaule che tramanda le gesta di antichi precursori esperti di astronomia dalle fattezze anfibie. A prescindere dalla descrizione degli antenati ibridi, l’autore, nel suo testo, cercava di mostrare come delle popolazioni all’epoca ritenute come “primitive” possedessero «in realtà un’ordinata e coerente metafisica che, attraverso un ingente complesso di connessioni simboliche, ne permeava profondamente l’insieme delle manifestazioni culturali» [Griaule, 1996: 7]. Altri esempi di divinità, spiriti e rappresentazioni di uomini-pesce sono i kulullu dei sigilli cassiti e neobabilonesi, Oannes, descritto nel testo Storia di Babilonia di Berosso (IV-II secolo a.C.), il dio mesopotamico Dagan e la sua derivazione ebraica, Dagon, oppure, ancora, l’uomo-pesce Fu Hsi, in Cina [Centini, 2013: 103-110].
In tempi più recenti, la figura mitologica, da maestosa ma malvagia affabulatrice in ambito classico e simbolo di una lussuria demoniaca in quello cristiano, venne riscattata attraverso la letteratura. Nel 1837, Hans Christian Andersen pubblicò all’interno di una raccolta di racconti per bambini la prima versione de La Sirenetta (Den lille Havfrue), ovvero la storia di una giovane principessa degli abissi che per amore di un essere umano compie un sacrificio brutale: la sua parola in cambio di una dolorosissima metamorfosi in essere umano. A differenza del celebre film di Walt Disney, la storia di Andersen non aveva un lieto fine (si specula dovuto alla sofferenza dell’autore stesso) ma grazie alla sua popolarità portò comunque l’immagine della sirena verso una nuova concezione: non più “mostro” marino, ma una figura graziosa e gentile che ama e può essere amata [Sells, 1995:175-178].
Queste “donne” degli abissi non sono un fenomeno esclusivamente dell’antichità o di romantiche incarnazioni ottocentesche di amori proibiti.
Molte culture nel loro folklore posseggono una variante dell’uomo/donna-pesce e alcune si sono espanse e persistono ancora oggi non come miti, ma come realtà per alcuni individui. Un esempio è quello di Mami Wata o Mami Water, inglese pidgin per dire “madre dell’acqua”, termine con il quale si indica una divinità acquatica che, sebbene sia adorata dagli Africani, essi la riconoscono come straniera e “importata”. Poiché la divinità, insieme ai suoi spiriti, è lei stessa di origine “altra”, i suoi seguaci la utilizzano per comprendere ciò che è Altro, avendo spesso la funzione di mediatrice tra il loro mondo e l’Occidente che prova a inserirsi in esso. È importante notare, però, che il culto di Mami Wata non è un fenomeno di mescolanza e, allo stesso tempo, non è creato per gli stranieri, ma viene utilizzato per comprenderli [Drewal, 1988:160-161]: «come risultato della loro crescente consapevolezza dell’immaginario e del folklore europei, gli Africani adottarono l’immagine della sirena, la quale viene spesso raffigurante emergere dalle acque mentre si pettina i suoi lunghi e lussuriosi capelli» [ivi, p. 162].
Un caso di particolare interesse, riportato da Bridgit Meyer, è quello di Felicia, una donna ghanese di trentadue anni, che allontanatasi dalla religione viene tormentata da uno degli spiriti di Mami Water. Dopo aver lavorato per molto tempo come domestica nella casa di un ambasciatore Bulgaro (offrendo anche dei servizi di tipo sessuale in cambio di denaro), la giovane si trasferì a casa di un’altra famiglia europea. Nel giro di pochi mesi, iniziò a essere perseguitata da strani sogni che indicavano un’attività stregonica in corso, ma allo stesso tempo uno spirito/divinità che continuava a mostrarsi alla donna, sia nelle ore di sonno che in quelle di veglia, era proprio un Mami Wata, che le prometteva fortuna, denaro e amore. Sia Felicia che un uomo di nome Jacob, altro testimone conosciuto dalla studiosa, narrarono di come non solo avevano acquisito una sorta di poteri stregonici attraverso le visite degli spiriti, ma entrambi erano discesi in fondo all’oceano e avevano visto il regno dei Mami Wata, che l’uomo descrisse colmo di case ricoperte in oro. Jacob, nonostante una delle caratteristiche di Mami Wata e i suoi spiriti è anche la possibilità dell’unione in matrimonio, confessò di non aver mai sposato lo spirito che lo tormentava, anzi, disse di temere, in un certo senso, questi esseri sottomarini, poiché mentre le femmine erano gentili e amorevoli e potessero rendere i loro mariti umani immensamente ricchi trasformando dei granelli di sabbia in banconote, i Mami Water di sesso maschile erano meno amichevoli. Jacob, dopo aver utilizzato a lungo i suoi nuovi “poteri”, capì che i Mami Wata non erano altro che malvagi servi di Satana. Secondo l’autrice dell’articolo, la possessione a opera di spiriti Mami Wata divenne diffusa e acquistò notorietà in Ghana soltanto nel periodo successivo all’indipendenza, quindi a partire dal XX secolo. Poiché appaiono spesso in momenti di bisogno o di forte desiderio, soprattutto monetario e sessuale (dove spesso il denaro è una diretta conseguenza dell’utilizzo della propria sessualità come mezzo per ottenerlo), ciò può esser segno che siano per i giovani abitanti del Ghana (soprattutto quelli legati alla religione Pentecostale) una proiezione della modernità da raggiungere e del desiderio di ricchezze e amore carnale; una modernità che sembra avere radici in un processo di occidentalizzazione e in un desiderio di ottenere le ricchezze dell’occidente, le quali è rinomato gli spiriti Mami Wata posseggano [Meyer, 1995: 52-60]. «I posseduti da questo spirito articolano la loro individualità relazionandosi alla bella e prosperosa donna bianca […] che vive in fondo al mare. Nella possessione rituale espongono degli aspetti di sé che non possono mostrare nella vita quotidiana. Incarnando lo spirito di Mami Water, i posseduti si appropriano ritualmente del mondo occidentale così come loro lo concepiscono. […] Mami Water può essere compresa come immagine che fa da mediatrice tra la percezione africana del contatto con gli stranieri con i quali erano coinvolti economicamente» [ivi, p. 61]. Essendo quindi spiriti globali, le possessioni da Mami Wata riescono a ristabilire il rapporto tra il locale e il globale, aiutando i posseduti a gestire l’ansia derivata dal loro stato di povertà e, allo stesso tempo, dalla spinta a un’occidentalizzazione vista quasi come irraggiungibile [ivi, p. 61-67].
Nonostante la loro estrema forza elusiva e gli sporadici avvistamenti di spettatori increduli non c’è dubbio che le sirene – e tutte le loro sorelle e fratelli “acquatici” – seppur di dubbia esistenza, siano estremamente diffuse grazie ai resoconti, i miti, gli incontri e le leggende che da millenni nutrono un già ricco patrimonio di racconti.
Bibliografia
Centini, M., 2013, Mostri marini – Creature misteriose tra mito, storia e scienza, Magenes, Milano
Griaule, M., 1996, Dio d’acqua: incontri con Ogottemmêli, Red, Como
Drewal, J. H., 1988, Mami Wata worship in Africa, TDR, Vol. 32, No. 2, The MIT Press
Meyer, B., 1995, “Magic, Mermaids and Modernity: The Attraction of Pentecostalism in Africa”, in Etnofoor, vol. 8, no. 2
Porsia, F. (a cura di), 2012, Liber monstrorum (Secolo IX), Liguori, Napoli.
Sells, L., 1995, “Where Do the Mermaids Stand? Voice and Body in the Little Mermaid”, in Bell, E., Haas, L., Sells, L. (a cura di), 1995, From Mouse to Mermaid. The Politcs of Film, Gender, and Culture, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis
Sitografia
Davidson, J., 2013, Discovery Channel Provokes Outrage with Fake Shark Week Documentary, TIME – Entertainment, 7 agosto 2013.
Finklea, G., 2016, 9 Mermaid Legends from Around the World, Mental Floss, 29 febbraio 2016
McGregor-Wood, S., 2009, Photograph Israeli Mermaid, Win $1 Million, ABC News, Israel, 12 agosto 2009
Online Etymology Dictionary: mermaid – https://www.etymonline.com/word/mermaid.
Videografia
Mermaids: The Body Found, di Sid Bennett, 2013