“Lo sguardo ha una storia, una geografia e un’antropologia. Non vediamo allo stesso modo in epoche e luoghi diversi, e l’esercizio della visione varia con il variare della società” – B. N. Aboudrar
Sin dall’infanzia gli individui incorporano1 gli stili di vita della propria società per mezzo di pratiche e credenze; tramite l’imitazione i più piccoli sono in grado di assorbire i diversi stili posturali ed espressivi che permettono loro di adattarsi al proprio contesto di vita e infatti, come osserva l’inglese Ingold, ciascuno di noi porta con sé l’intera storia delle proprie relazioni ambientali e sociali che modificano e trasformano i nostri comportamenti: per esempio, imparando a camminare fisicamente da bambini si apprende anche come farlo “socialmente”. L’azione “naturale” del camminare è certamente una componente biologica, ma anche socialmente costruita infatti «è solo nel coinvolgimento personale nel mondo sociale [e nella pratica quotidiana] che ci si sviluppa normalmente come esseri organici» [Ingold, 2016].
L’interesse per questa forma di apprendimento culturale da parte dei più piccoli all’interno di ciascuna società è stata analizzata dettagliatamente anche da Losin che ha evidenziato tre elementi costanti e caratterizzanti ciascuna persona [cfr. Losin, 2009]:
- innanzitutto i pregiudizi che configurano le gerarchie sociali (per esempio gli stereotipi di genere);
- il riconoscimento e l’attribuzione di stati mentali agli altri membri del gruppo;
- i rinforzi sociali forniti tramite le ricompense e/o punizioni a determinate condotte .
A partire da queste condizioni prendono forma tutti i particolarismi che differenziano gli individui sia culturalmente che cognitivamente in quanto, nonostante all’interno di ogni cervello umano sia presente il medesimo hardware per l’elaborazione di stimoli percettivi, ognuno impiega un programma personale nell’atto percettivo [cfr. Lotto, 2017]. Infatti, tutto ciò che vediamo dipende non tanto dal “cosa” quanto dal “come” lo vediamo; un esempio di questa forma di relativismo percettivo può essere fornito dallo studio del giapponese Yoshiyuki Ueda nel quale sono state evidenziate le differenze dei movimenti oculari tra individui nati in società occidentali (canadesi e statnitensi) e nati in società orientali (giapponesei). Ciò che è emerso dall’analisi delle capacità di individuare quali figure fossero maggiormente differenti rispetto alle altre tra gruppi di forme geometriche simili: il campione occidentale presentò difficoltà nel distinguere linee di lunghezza differente, mentre la criticità del campione asiatico venne riscontrata nell’individuazione della variazione di angolo.
Secondo Ueda alla base di queste differenze potrebbe esserci il differente sistema ortografico che, in quello orientale si focalizza sulla differenziazione della lunghezza dei tratti, mentre in quello occidentale si basa sulle variazioni angolari che determinano il cambio di suono come nel caso delle lettere U e V [cfr. Ueda, 2018]. A questi risultati può essere aggiunto come ciascuna cultura relativizzi i movimenti ottici degli individui nell’estrarre informazioni dal proprio ambiente; infatti, gli asiatici percepiscono le informazioni in maniera olistica in quanto la propria cultura assegna maggior valore al gruppo, mentre lo sguardo analitico occidentale deriva da una cultura focalizzata su oggetti salienti. Da questa differenza percettiva di natura stilistica deriva un condizionamento della ricezione degli input e dalla loro successiva codifica; «propensioni e assunti socialmente appresi influenzano la nostra materia grigia, come le successive percezioni e comportamenti, eppure sono sviluppati del tutto inconsciamente a partire da più ampi assunti culturali… impressi nel nostro cervello» [Lotto, 2017:164].
Così come l’osservazione di una semplice lettera varia a seconda del proprio contesto socioculturale, anche la percezione di un certo oggetto come sacro o profano si sedimenta attraverso l’incorporazione delle norme di vita e di vista.
Come mostra lucidamente il francese Aboudrar dal confronto tra percezione cristiana e islamica le norme di vista imposte da entrambe le religioni caratterizzano anche le norme di vita. Se da un lato la cristianità ha reso la vista un elemento chiave nel proprio sistema culturale in cui per credere bisogna vedere, dall’altro nell’iconofobico mondo islamico si rifugge da ogni immagine; questi due sistemi ideologici hanno influenzato la percezione e la vita stessa dove «la cristianità inventa specifici dispositivi di messa in visibilità: gli ostensori [come per esempio i] reliquiari… Non siamo lontani dalle vetrine dei musei e delle boutique di lusso: anch’esse, come i reliquiari, conferiscono agli oggetti che custodiscono la loro specifica aurea» [Aboudrar, 2015:154]. Nel mondo islamico invece dalle abitazioni alle moschee regna l’austerità, nel tentativo di «impedire sin dall’inizio che lo sguardo possa farsene un’immagine complessiva» [ivi, 159]. Tuttavia, come osserva Fabietti «per quanto spirituale possa essere una religione, non c’è modo di separarla da una base materiale fatta di oggetti manipolabili, di gesti, di immagini reali» [Fabietti, 2014:153].
Ogni religione si rapporta in diversi modi alla materia, ma che si parli di iconofilia, iconofobia o iconoclastia le “cose” permettono di entrare in contatto con il numinoso e l’ineffabile. Allo stesso modo, anche se gli individui non riconoscono la stessa sacralità alle cose, tutti proiettano sulla materia significati e rappresentazioni culturalmente appresi e codificati [ibidem]. Quando i colonizzatori cristiani entrarono in contatto con alcuni culti andini, si resero conto di come i nativi fossero devoti a certe rocce; i missionari bollarono prontamente questo culto come “litolatria”, mentre per gli andini questi oggetti chiamati huaca erano a tutti gli effetti dotati di valore religioso e incarnavano un antenato piuttosto che una divinità, al pari dell’ostia e del vino consacrati che per i fedeli cristiani sono il vero corpo e il vero sangue di Cristo. La credenza non condiziona soltanto il contesto religioso, ma anche quello quotidiano nel quale ciascuno di noi crea una propria cosmologia personale nella quale ci aspettiamo che il mondo funzioni in un particolare modo; tutta la nostra conoscenza della realtà si fonda, come direbbe Hume, sull’abitudine con cui vengono percepiti i fenomeni grazie alla quale sono stimate le probabilità che ad una certa causa segua un certo effetto [cfr. Hume, 1996].
Ogni aspetto della realtà che noi percepiamo non è altro che una forma di credenza costruita sull’insieme di aspettative e di significati incorporati nel corso della vita. A partire dai nostri sensi vengono costruite delle immagini che verranno poi codificate culturalmente dal nostro cervello, ma i significati sono in continua trasformazione al pari degli individui stessi. Con il variare del contesto percepito anche il nostro comportamento e il nostro sguardo cambiano come nel caso della cosiddetta “arte primitiva”. Gli oggetti ‘primitivi’ sono l’esempio del relativismo di sguardi tra nativi e occidentali che produce una devozione religiosa per i primi ed artistica per i secondi. Molti degli oggetti collezionati nei musei o nelle collezioni private degli occidentali erano stati prodotti per scopi totalmente differente da quelli artistici: una statua lignea, una maschera, dei gioielli e più in generale la cultura materiale di una società può essere risignificata dall’occhio di un osservatore esterno. Durante gli anni Settanta i Maori della Nuova Zelanda reclamarono la restituzione dei propri oggetti cerimoniali raccolti da esploratori, missionari, etnografi, amministratori coloniali e custodi museali in virtù del loro passato valore simbolico e di quello di potenziale risorsa economica [cfr. Price, 1992; Fabietti, 2015].
Riccardo Montanari
1 Il concetto di incorporazione (o embodiment) è entrato nel lessico antropologico negli ultimi decenni in seguito alle riflessioni di Csordas sul ruolo ricoperto dal corpo nelle dinamiche culturali e individuali. Infatti, in ciascun contesto culturale il corpo è il luogo carnale sia delle proiezioni simboliche che delle esperienze individuali; esso in sostanza «definisce le modalità attraverso le quali gli esseri umani vivono l’esperienza del corpo nel mondo e ne producono la rappresentazione» [Pizza, 2005:37].
Bibliografia
Aboudrar, B., N., Come il velo è diventato musulmano, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005
Fabietti, U., Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiose, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014
Fabietti, U., Elementi di antropologia culturale, Mondadori, Firenze, 2015
Hume, D., Ricerca sull’intelletto umano, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996
Ingold, T., “Tre in uno come eliminare la distinzione tra corpo, mente e cultura”. In C. Grasseni e F. Ronzon (a cura di), Ecologia della cultura, Meltemi editore, Milano, 2016
Losin, E., A., “Culture in the mind’s mirror: how anthropology and neuroscience can inform a model of the neural substrate for cultural imitative learning”. In Progress in Brain Research, vol.178, cap.12, 2009
Lotto, B., Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2017
Pizza, G., Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, Roma, 2005
Price, S., I primitivi traditi. L’arte dei selvaggi e la presunzione occidentale, Einaudi, Torino, 1992
Ueda, Y., “Cultural differences in visual search for geometric figures”. In Cognitive Science, vol.42, n.1, 2018