Negli ultimi anni il climate change è divenuto una realtà: moltiplicazione di uragani e tifoni, riscaldamento eccessivo delle temperature oceaniche, scioglimento dei ghiacciai, aumento del livello dei mari, desertificazione, bombe d’acqua. Grandi eventi catastrofici e ormai in parte prevedibili si manifestano con regolarità e immane distruzione in diverse aree del pianeta mobilitando la comunità scientifica alla ricerca di spiegazioni e soluzioni.
Diverse teorie hanno cercato di spiegare l’origine dei cambiamenti climatici.
Questi potrebbero essere connessi in parte all’entrata dell’umanità nella fase dell’Antropocene, ossia l’epoca geologica in cui gli ambienti terrestri, con le loro caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, vengono fortemente condizionati dagli effetti dell’azione umana [cfr. Crutzen, 2005]. Con la rivoluzione industriale, l’avanzamento tecnologico e lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali si è messo in moto un cambiamento così ingente da impattare sulle nostre vite di tutti i giorni. Se da un lato si parla di Antropocene, negli ultimi anni si è fatto strada anche un altro termine che sposta però l’accento della responsabilità degli attuali scompensi climatici non sullo sfruttamento delle risorse in sé, quanto sul sistema capitalistico alla base di questa rincorsa economica: Capitalocene [cfr. Moore, 2017]. La rincorsa al capitale ha portato al sovrasfruttamento di molte risorse naturali mettendo in crisi un ecosistema fragile già provato da millenni di cambiamenti geologici. Questa prospettiva storica porta l’attenzione sull’epoca del consumo, della dipendenza economica dei paesi terzi, della post-colonizzazione, del neoliberismo economico.
Che sia dovuto all’entrata delle società umane in un periodo di Antropocene o Capitalocene, il cambiamento climatico agisce e modella le vite di diversi gruppi culturali situati in aree fragili.
Questi luoghi sono “fragili” perché particolarmente esposti a fenomeni naturali di grande entità che obbligano le popolazioni locali a confrontarsi sempre gli ambienti circostanti; con il cambiamento climatico questi fenomeni sono aumentati di intensità e gravità. Il caso delle Maldive è emblematico: in questo remoto arcipelago situato nell’Oceano Indiano il riscaldamento delle acque oceaniche ha portato al decadimento della barriera corallina situata attorno alle isole. Se la barriera si indebolisce non è più in grado di mitigare la potenza delle onde oceaniche che vanno ad erodere direttamente le isole, diminuendo sempre di più lo spazio vivibile in sicurezza degli abitanti dei villaggi; inoltre il riscaldamento delle acque può portare ad una diminuzione del pescato ed i villaggi isolani, fortemente legati alla pratica della pesca in alto mare, sono costretti a trovare situazioni alternative possibili attraverso l’import di materie già lavorate provenienti dalla terraferma [cfr. Kellman I., West J., 2009].
Gli assetti culturali vengono ridisegnati a causa di modificazioni paesaggistiche e naturali così intense da riscrivere parte delle cosmologie e delle narrazioni mitologiche locali [cfr. Ingold, 2016]. Il cambiamento climatico non è dunque solo analizzabile come un fenomeno puramente naturale ma diviene un campo di ricerca estremamente interessante anche per la disciplina antropologica in quanto riafferma l’esistenza di un certo legame fra i luoghi e le culture locali; a tal proposito Turri introduce l’espressione “iconema“, intesa come «unità elementare di percezione, come segno all’interno di un insieme organico di segni, come sineddoche, come parte che esprime il tutto» superando quella visione del paesaggio come puro costrutto geografico o naturale. [Turri, 2006:3].
Uno degli esempi più noti nella letteratura antropologica di questo fenomeno è quello illustrato da Susan Crate fra i Viliui Sakha, nel nordest della Siberia.
La leggenda del “Bull of Winter” viene utilizzata dai Viliui Sakha per spiegare mitologicamente il passaggio dal freddo e gelido inverno alla primavera: il toro invernale, che è colui che custodisce il freddo ed il gelo, perde il primo corno in gennaio, quando le temperature iniziano ad alzarsi lievemente, ed il secondo alla fine di febbraio per poi perdere la testa in marzo accogliendo la breve primavera. Sia la trasformazione della cultura simbolica dei Viliui Sakha, la disgregazione del toro invernale, sia la modifica delle attività lavorative locali, il mantenimento delle aree coltivabili strappate agli strati di permafrost, riflettono la profonda interrelazione fra questa popolazione con il contesto climatico.
I cambiamenti climatici sono qui particolarmente avvertiti a causa di una maggior esposizione a condizioni meteorologiche estreme: il toro invernale sta scomparendo dalle narrazioni locali in relazione ad un insieme di concause sociali, economiche e culturali fortemente influenzate dal forte scompenso climatico. Il “bull of winter” non si squaglia più seguendo lo scioglimento dei ghiacci invernali perché questi seguono ormai un ritmo totalmente differente da quello precedente che legittimava la narrativa locale ed il risultato è che questo scioglimento narrativo/fisico non è più coordinato e dunque il mitologico toro non può più sussistere in base a queste nuove premesse. Gli inverni non sono più così freddi, le estati sono estremamente piovose e questo impedisce la raccolta, l’essiccatura e l’immagazzinamento del fieno per il bestiame dal quale in inverno si trae sostentamento. Il riscaldamento delle temperature terrestri disgrega non solo le comunità locali obbligandole a riorganizzarsi e a definire nuovamente le proprie attività principali per la sopravvivenza, ma modifica intensamente le narrazioni tradizionali che contribuiscono alla definizione dell’identità individuale e collettiva [Adger W. N., et al., 2012].
Che siano la conseguenza dell’Antropocene o del Capitalocene, oppure caratteristici dell’attuale era geologica, l’Olocene, i cambiamenti climatici agiscono direttamente sulla vita delle società umane molto più di quanto si ritenesse fino a pochi anni fa. Le comunità geograficamente più marginali o isolate sono quelle più colpite da questi cambiamenti e sono costrette a ripensare sé stesse all’interno di un nuovo paradigma. Ciò non significa però che luoghi più densamente popolati o al centro di forti dinamiche commerciali e politiche siano immuni al climate change; anzi come suggerito da Susan Crate e Mark Nuttal [2016] il cambiamento climatico obbliga tutte le comunità ad interrogarsi sulle relazioni sociali, economiche, politiche ma soprattutto identitarie su cui si costruisce il senso della collettività a partire anche da storie comuni e semplici legate alla natura, che ora rischiano di non essere più funzionali e quindi di scomparire.
Bibliografia
Adger, W., N., 2012, “Cultural dimensions of climate change impacts and adaptation”, in Nature Climate Change, Vol. 3
Crate, S., A., Nuttal M., 2016, Anthropology and climate change. From actions to transformations, Routledge, New York
Crate, S., A., 2008, “Gone the Bull of Winter? Grappling with the Cultural Implications of and Anthropology’s Role(s) in Global Climate Change”, in Current Anthropology
Crutzen, P,.J., 2005, Benvenuti nell’Antropocene! Mondadori, Milano
Kellman, I., West, J., 2009, “Climate Change and Small Island Developing States: A Critical Review”, in Ecological and Environmental Anthropology, Vol. 5, n.1
Ingold, T., 2016, Ecologia della cultura, Meltemi, Milano
Moore, J.,W., 2017, “The Capitalocene Part I: On the Nature & Origins of Our Ecological Crisis”, in The Journal of Peasant Studies
Turri, E., 2006, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio Editore, Venezia