Dalla parte di Cenerentola: una critica alla critica di genere

 

Ospite di Ellen DeGeneres, Keira Knightley ha dichiarato, poco prima di presentare il nuovo film Disney Lo schiaccianoci e i Quattro Regni, di cui è una delle protagoniste, che alcuni cartoni animati della stessa casa di produzione sono vietati nella sua famiglia. Nota sostenitrice dei diritti delle donne, l’attrice inglese si è lanciata contro due personaggi Disney in particolare: Cenerentola (protagonista dell’omonimo film del 1950) e Ariel (protagonista de La Sirenetta del 1989), la prima accusata di guardarsi attorno in attesa di un ricco uomo che la salvi, «Salvati da te!» ha consigliato Keira alla principessa Disney e la seconda di aver rinunciato alla sua voce per un bell’uomo. La notizia, diventata immediatamente virale, ha diviso il web e se alcuni hanno preso le parti della Knightley, allineandosi senza esitazioni alla sua posizione, molti non le hanno lesinato critiche, accusandola di propagandare un femminismo “spicciolo” o di voler cavalcare l’onda di una polemica del tutto priva di fondamento. Sembra allora interessante partire da questo frame per esaminare, da un punto di vista antropologico, un tema complesso che infiamma gli animi dei fans come di studiosi e studiose: quello delle principesse Disney. 

Nel decennio 1989-1998, nel periodo noto come “Rinascimento Disney”, gli Studios hanno realizzato una decina di titoli destinati a diversi premi Oscar e a grandi successi al botteghino.

È un periodo che vede succedersi personaggi femminili come Ariel, Belle, Jasmin, Pocahontas e Mulan, che, se per alcuni incarnano un nuovo modello di femminilità, inedito rispetto alla tradizione disneyana, per altri (e soprattutto altre), sotto la maschera superficiale del politicamente corretto o dell’esotismo di maniera, sono in perfetta continuità con l’etnocentrismo e l’ideologia patriarcale e benpensante che caratterizzano gli Studios [cfr. Youngs, 1999; Morrison, 2014; Dundes–Streiff, 2016]. Emblematico, in questo senso, è il film d’animazione “Mulan”, spesso lodato per essere una storia sulla rottura dei confini e dei ruoli di genere convenzionali.

Non è d’accordo Gillian Youngs, che, pur osservando che l’obiettivo della protagonista è il riconoscimento dei suoi diritti, aggiunge che ciò avviene nei termini di un «ambiente militare maschilista»; Mulan è, nelle parole di Youngs, uno «pseudo [uomo] o il surrogato di un uomo» [Youngs, 1999:312], che prende il posto del figlio maschio che la sua famiglia non ha avuto. Così, invece di celebrare le molteplici possibilità di essere donna, la storia del personaggio porrebbe il divenire uomo quale unica alternativa al tradizionale ruolo femminile nella società [ibidem].

A partire dal 2009, anno in cui esce La principessa e il ranocchio, gli Studios tornano a mettere in scena storie tratte dalla tradizione fiabesca incentrate su giovani protagoniste femminili.

Sono gli anni di Tiana, Rapunzel, Merida, le sorelle Anna ed Elsa e di Moana, ufficialmente “incoronate”, diversamente dalle principesse precedenti, con cerimonie ad hoc in live-show e nel caso di Merida previo un (discusso) restyling che ha reso il look dell’eroina Pixar più vicino ai romantici standard disneyani. Diversamente da Mulan, Merida, la principessa di The Brave (2012), vuole essere rispettata in quanto donna e lotta per scegliere il suo destino. Diversi sono i modi in cui rompe i cliché del mondo delle principesse Disney, non ultimo il suo aspetto, caratterizzato dalla grande massa di spettinati riccioli rossi, ribelli anche agli sforzi materni di chiuderli in una cuffia, quando la madre cerca di vestire la figlia in modo appropriato per l’incontro con i membri degli altri clan [cfr. Morrison, 2014].

Nel film Merida sfugge alla classica trama incentrata sulla principessa che trova l’amore del principe azzurro: la sua storia è quella di una giovane donna che scopre se stessa partendo dal rapporto con la madre e dalla risoluzione dei problemi peculiari di tale relazione [Ibidem]. Ciò, per la letteratura femminista, è ancora più rilevante se si pensa che, in quasi tutti i film precedenti della Disney, la madre della protagonista è morta o, comunque, relegata al margine della storia1; l’esplorazione del rapporto fra due donne fra loro vicine, che sarà poi ripreso in Frozen (2013), mette in risalto un momento fondamentale della vita di una donna, evidenziando dinamiche familiari lontane dal classico romanticismo Disney [Morrison, 2014; Tanner et al, 2003].

Viene da chiedersi se una lettura delle principesse che le descrive come rappresentazioni stereotipate del patriarcato non rischi forse di offuscare sia la storicità dei personaggi sia le loro stesse qualità agentive. Non si dovrebbe andare oltre ciò che avviene esplicitamente sotto gli occhi dello spettatore, superando quello che Farmer definisce «l’etnograficamente visibile» [Farmer, 2004:305], per comprendere le numerose e intriganti sfaccettature di un fenomeno che ha percorso (e percorre) più di cento anni della storia del costume occidentale? 

Si prenda Cenerentola, per esempio, che Keira Knightley sollecita a “salvarsi da sé”, una giovane donna cresciuta all’ombra della matrigna e delle due sorellastre.

Colette Dowling, autrice del fortunato The Cinderella Complex (1981), ha descritto Cenerentola come l’emblema della donna che ha paura della libertà e dell’indipendenza, bisognosa di qualcuno su cui appoggiarsi, che lenisca l’ansia delle sue stesse ambizioni. Ma è davvero al matrimonio che aspira Cenerentola? Quando canta dei suoi sogni2 non nomina mai l’amore: parla di felicità, di spensieratezza e della libertà di essere se stessa, di riscatto personale, insomma, non diversamente da come faranno eroine più moderne come Ariel, Tiana ed Elsa.

Nel modo di muoversi della dolce, premurosa e obbediente Cenerentola fra le stoviglie, i secchi e la biancheria sporca, vi è una giocosità che inscrive nello stesso atto del quotidiano servire la matrigna e le sorellastre una sottile ribellione. Si fa qui riferimento alla teoria proposta da Erving Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione (1969), in cui il sociologo descrive le prestazioni teatrali che si verificano nelle interazioni faccia a faccia. Egli sostiene che in un’interazione sociale, come in uno spettacolo teatrale, c’è un’area sul palco dove gli attori (gli individui) appaiono davanti al pubblico, in cui si offre una versione di sé positiva, adeguate all’impressine che si desidera fare. In questo senso possiamo leggere la dolcezza e l’ubbidienza di Cenerentola. Ma c’è anche un backstage, un’area privata, in cui gli individui possono essere se stessi e abbandonare il proprio ruolo e la propria identità sociale. Ed è in questo spazio, per Cenerentola rappresentato dalla cucina, dalla soffitta, o dai momenti di solitudine, in cui emerge il desiderio di ribellione della giovane. Una ribellione che, non a caso, si può trovare, ancora, nella cura riposta verso i topi, anche loro soggetti (nel doppio senso che Foucault dà al termine) alle angherie e alle minacce poste da Lucifero, il gatto di casa, in un gioco di specchi fra umani e animali. La relazione di Cenerentola con i topolini è stata vista da diverse studiose femministe, fra cui Naomi Wood, come una metafora dei doveri materni a cui la donna, in una visione patriarcale delle famiglia, dovrebbe sottostare [1996: 32]. Ma, ci si chiede, i topi, ospiti sporchi e tradizionalmente sgraditi in casa, non potrebbero essere l’alter ego animale di Cenerentola? Più che essere (solo) curati dalla giovane, agiscono come compagni e complici, lavorando, per esempio, al vestito per il ballo che lei non può realizzare e concorrendo, così, alla realizzazione del suo sogno. È chiaro che in Cenerentola c’è una capacità performativa che non vi era, per esempio, in Biancaneve: alla paura e allo smarrimento, ella oppone una certa giocosità, quasi del sarcasmo, con cui accompagna i suoi doveri quotidiani, come quando apostrofa Lucifero, il gatto della matrigna, la mattina, quando lo sveglia: “[…] So bene che a Sua Altezza dispiace far colazione così presto. Non certamente un’idea mia quella di servirti per primo! Questi sono gli ordini”. Ancora si può scorgere il tentativo di gestire il dominio di un’autorità ingiusta e arbitraria quando sveglia l’amato cane Tobia e, quasi facendo il verso a Freud, lo rimprovera per il sogno in cui ha la meglio su Lucifero: i sogni, spiega al cane, possono rappresentare imprudenti desideri che vanno, dunque, messi a tacere [cfr. Wood, 1996:34]. 

Lo stesso Walt Disney, racconta Naomi Wood, aveva immaginato Cenerentola come un personaggio dalla forte personalità, ben diverso da quello della fiaba di Perrault, arrivando fino ad arricchirla con qualche debolezza umana, che l’autrice rintraccia, per esempio, nella malizia delle smorfie con cui Cenerentola sottolinea l’incapacità nel canto delle sorellastre [Cfr. Wood, 1996] e aggiunge che, nonostante le angherie della sua famiglia acquisita, la giovane reagisce con positività e ribellione quando dice, per esempio: “Meno male, però, che nessuno può impedirmi di sognare3. Certo allo spettatore contemporaneo, le azioni e le parole di Cenerentola possono apparire piuttosto deboli, ma va tenuto a mente che i classici Disney, inevitabilmente, raccontano l’epoca in cui sono stati realizzati, con i suoi modi e i suoi valori; l’obbedienza di Cenerentola può essere vista come la dignità di una giovane donna che si trova ad affrontare una situazione insostenibile, ma che non si lascia mai andare alle lacrime pubblicamente, né alle recriminazioni, al risentimento o alla rassegnazione, così come si chiedeva alla donna americana nel dopo guerra, in un clima dominato dal “sogno americano”. In questa stessa chiave potremmo leggere anche il suo sogno di partecipare al ballo, uno spiraglio di luce nell’annichilimento in cui vive. Wood scrive che il sogno di Cenerentola si realizza perché è limitato (e limitante), aggiungendo che: «I sogni della Cenerentola di Disney sono sogni “domestici” che assimilano l’ideologia strutturale propria del film. Invece di sfidare lo status quo, in questo film i sogni lo ripropongono, situando ogni sognatore in un’“appropriata” posizione sociale, determinata dalla sua morfologia maschile o femminile4» [Wood, 1996:34]. I sogni di Cenerentola sarebbero “femminili” e, posti in contrasto con quelli di “avventura” tipicamente maschili, obbedirebbero ai grandi costrutti sociali dell’amore, del matrimonio e della procreazione.

In questa prospettiva duale, quindi, amore e matrimonio non solo si oppongono all’avventura, ma impediscono alle donne di ricercarla. Ma se è vero che i tempi non sono ancora maturi perché Cenerentola possa sognare l’avventura come faranno Ariel, Pocahontas o Mulan, si ritiene che il suo sogno “femminile”, più che porsi in posizione dicotomica rispetto a quello “maschile” dell’avventura, sia una diversa sfumatura dello stesso: un’avventura breve, che per la giovane potrebbe concludersi con la fuga rappresentata dal ballo, ma non per questo meno significativa; un sogno “domestico”, ma non per questo meno dignitoso, se letto in una prospettiva in cui non si vuole sminuire un modo di vita a favore di un altro, anche se questo appare più adeguato, perché più intellettuale, moderno e politicamente corretto [cfr. MacCormack – Strathern:1980]. 

Ripercorrendo brevemente la storia di alcune delle principesse Disney, che meriterebbe ben altro spazio, si è voluto proporre come possano essere considerati archetipi imperfetti, modelli non necessariamente pericolosi per le bambine e i bambini che guardano i film d’animazione e quanto diano la possibilità, per tutte e tutti, una volta abbandonato il regno della fantasia, di avere strumenti utili per ragionare sui diversi modi di essere e di pensare.

Nicoletta Sciarrino

Info

 

 

 

Dorfman e Mattelart (1975) sostengono che Disney, mettendo in disparte la figura della madre, abbia cercato di omettere la sessualità e il tema della “riproduzione” dalle storie; Haas (1995), invece, vede in tale scelta un modo per minimizzare l’importanza dell’eredità materna nella vita della figlia. 

Ai fini di questo articolo, si fa riferimento alla versione italiana del film.

Questa battuta è probabilmente più incisiva nell’originale inglese: “Well, there’s one thing, they can’t order me to stop dreaming”.

4 Traduzione di Nicoletta Sciarrino.

Bibliografia

Aroldi, P., “Ri-belle in rosa: figure dell’adolescenza nel franchise delle Principesse Disney”, in Aimo, L., Carpani, R., Peja L. (a cura di), Scena madre. Donne personaggi e interpreti della realtà. Studi per Annamaria Cascetta, Vita e Pensiero, Milano-Roma, 2014

Dorfman, A., Mattelart, A., How to read Donald Duck: Imperialist ideology in the Disney comic, New York, International General, 1975

Dowling, C., The Cinderella Complex: Women’s Hidden Fear of Independence, Simon&Schuster, 1981

Haas, L.,Eighty-six the mother: Murder, Matricide, and Good Mothers”,in Bell, E., Haas, L., Sells, L. (a cura di), From Mouse to Mermaid: The Politics of Film, Gender, and Culture, Indiana University Press, 1995

Dundes, L., Streiff M., “Reel Royal Diversity? The Glass Ceiling in Disney’s Mulan and Princess and the Frog”, in Societies, 6, 4, 2016

Farmer, P., “An Anthropology of Structural Violence”, in Current Anthropology, University of Chicago Press, 45, 3, 2004

Goffman, E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1969

Youngs, G., “The Ghost of Snow White”, in International Feminist Journal of Politics, 1, 2, 1999

MacCormack, C., Strathern, M., Nature, Culture and Gender, Cambridge U.P., New York, 1980

Tanner, L. R. e altri, “Images of Couples and Families in Disney Feature-Length Animated Films”, in The American Journal of Family Therapy, 31, 2003

Wood, N., “Domesticating Dreams in Walt Disney‟s Cinderella”, in The Lion and the Unicorn, 20, 1, Johns Hopkins University, 1996

Sitografia

Morrison, D., Brave: A Feminist Perspective on the Disney Princess Movie, M.A. tesi, 2014: https://digitalcommons.calpoly.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1178&context=comssp

Videografia

Cenerentola, Wilfred J., Hamilton L. e Clyde G., 1950

Mulan, Bancroft T. e Cook B., 1998

Ribelle – The Brave, Mark Andrews e Brenda Chapman, 2012

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