Qualsiasi considerazione intorno alla follia e alla sua “cura” presuppone la necessità di interrogarsi sulle epistemologie e le genealogie della disciplina psichiatrica e sui paradigmi che vi sono sottesi, procedendo in un percorso che non può offrire certezze, ma che sottolinei la complessità del fenomeno [cfr Rossi, 2018].
Con l’inizio del Novecento è la psicoanalisi di Freud a mettere in crisi l’approccio naturalistico al disturbo psichico che lo vedeva come malattia mentale collegata ad un’anomalia biologica. La netta equazione tra disturbo patologico e patologia neurobiologica viene progressivamente superata dalla proposta di una “terapia della parola” volta a valorizzare la relazione interpersonale e l’analisi delle problematiche inerenti a tale relazione. Nella prospettiva psicanalitica i disturbi mentali rappresentano quindi disarmonie dell’apparato psichico nelle quali la realtà inconscia prevale sul mondo reale e nel loro studio vanno individuate le costanti che regolano gli avvenimenti psicologici, valorizzando i fatti interpersonali, di carattere dinamico, piuttosto che quelli biologici di carattere statico. È dall’osservazione clinica che poi si ricavano le regole per inquadrare i comportamenti umani in costrutti teorici di riferimento andando oltre la freddezza dell’impostazione rigorosamente medica [cfr Freud, 1979].
La sofferenza e la salute mentale acquistano quindi nuovi connotati descrittivi:
non è un singolo fattore scatenante a promuovere un certo disturbo, ma le complesse relazioni tra la struttura psichica di base e le esperienze di vita che derivano dalle relazioni intersoggettive che l’individuo ha [cfr. Cioffi, 2002]. «Solo attraverso una partecipata posizione di ascolto, l’immedesimazione, l’empatia, il mettersi nei panni dell’altro apparentemente incomprensibili, si può arrivare a comprendere» [Dell’Acqua, in Rossi, 2002:133].
Viene inaugurata, anche nel campo della psichiatria, quella stagione di profonda revisione della prospettiva dalla quale guardare al disturbo e al disagio di tipo psichico (in questo caso). Si fa largo l’idea di considerare quella che si definiva “malattia mentale” (forse in modo superficiale e improprio) in una maniera più densa e articolata, conferendole quella “natura multipla”, teorizzata dalla scuola di Harvard, secondo cui il disturbo non è solo un alterazione di tipo biologico (disease) ma ha anche una componente legata all’esperienza personale (illness). Questo può determinare differenti quadri clinici ma influenzare anche gli approcci curativi oltre che quelli della percezione della malattia. Cosa da cui non poter prescindere era, però, secondo la teoria elaborata da Kleinman durante il suo lavoro di ricerca tra gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, la narrazione e la condivisione dell’esperienza personale del disagio [cfr. Kleinman, 1988].
Il 1961 è una data da ricordare per la psichiatria: Basaglia arriva a Gorizia, Focault pubblica La storia della follia e Goffman Asylum.
I tre si ignorano completamente ma entrambi sviluppano in maniera autonoma una critica alla malattia mentale, tuttavia esiste un ulteriore testo che va integrato a questo memorabile elenco: La terra del rimorsodi De Martino che come gli altri tre cerca di liberare il corpo (in questo caso femminile) dal riduzionismo della medicina. Come sostenuto da Giovanni Pizza è importante citare De Martino visto l’uso che spesso Basaglia fa di espressioni come “approccio antropologico”, per aprire alla dimensione socio-culturale e politica la questione del corpo [cfr Pizza, 2007].
Non a caso le riflessioni basagliane hanno costituito un riferimento importante nella realizzazione di alcune delle opere più influenti dell’antropologia medica critica, come ad esempio The mindful bodydi Nancy Sheper-Hughes e Margret Lock[Ibidem],in cui le due autrici ampliano e superano i concetti già teorizzati da Kleinman, aggiungendo una terzo elemento intorno al quale gravita la percezione di un determinato disturbo, vale a dire quello collegato al contesto sociale (sickness).
Riflettere su Franco Basaglia, concentrandosi sulla questione corporea e della sua percezione è un’operazione molto utile per rafforzare il riconoscimento della portata innovativa e ancora attuale dell’intero movimento del quale egli fu protagonista.
Per tutti gli anni cinquanta del Novecento, periodo nel quale lavorava presso la clinica universitaria di malattie nervose di Padova, approfondisce la lettura dei classici della fenomenologia, fondamentali nel ripensamento della psichiatria classica e i due saggi sulla dimensione corporea dell’ipocondria costituiscono un esempio di quanto la riflessione filosofica sul “corpo vissuto” assuma un carattere strategico poiché destinata a disarticolare gli studi puramente descrittivi, nel quadro dell’elaborazione di un sapere psichiatrico nuovo [cfr. Pizza, 2007]. Basaglia vuole smembrare quella «ipotetica realtà data» [Basaglia, 2005] su cui si reggeva la psichiatria universitaria italiana di allora per «situare la conoscenza psichiatrica nel quadro delle relazioni corporee vive e non nel simulacro di un corpo clinico reificato e oggettivato» [Pizza, 2007:51]. In tal modo si potrà abbandonare il paradigma causale della “spiegazione”, sperimentando una metodologia di “comprensione” che ricollochi il sapere psichiatrico più vicino all’esperienza delle persone sofferenti [Ibidem].
Basaglia ragiona sull’ipocondria allacciandola alle nozioni di corporeità, di sé e di persona, presentandola non più come entità patologica autonoma riconfigurando ad esempio il concetto di “realtà somatica” come corporeità messa al centro della percezione del mondo. Il suggerimento principale è ripensare tutte le nevrosi su base “strutturale”, considerando in tal caso l’ipocondria non come una sindrome di per sé ma come comune a molte altre sindromi e diffusa nell’esperienza sentimentale quotidiana della corporeità, una situazione «nella quale l’individuo pone il proprio corpo indifeso in rapporto col mondo» [Basaglia, 1981:145].
Attraverso i saggi sull’ipocondria Basaglia critica inoltre la corrente di studi sulla percezione corporea, soprattutto il lavoro di Paul Schilder sullo “schema corporeo1”.
Definisce l’approccio schilderiano macchinoso ed eccessivamente teorico [Ibidem] eccessivamente concentrato sulle processualità della percezione corporea e non tenente conto delle contraddizioni storiche. Basaglia al contrario individua tali contraddizioni nelle ambIguità concrete del corpo, nelle sue emozioni e nei suoi dinamismi [cfr Pizza, 2007]. E’ il corpo che da la possibilità di agire e «tendere verso la realizzazione del mio possibile» [Basaglia, 1981:295] ma questa capacità d’agire non va confusa con l’azione, essendo una potenzialità incarnata e necessaria per definire gli spazi della negoziazione pubblica del sé .
Basaglia mette al centro della riflessione fenomenologica non soltanto l’ambiguità “dell’essere e dell’avere un corpo” ma anche la relazione che connette il corpo del sofferente all’ambiente esterno proiettando il rapporto terapeutico nella più ampia rete dei rapporti sociali [cfr. Pizza, 2007]. Nel saggio Corpo, sguardo e silenzio, del 1965, viene mostrato come anche il silenzio del paziente sia un gesto intriso di forza, capace di impedire che la presenza dell’altro non invada lo spazio personale, «il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri» [Basaglia, 1981:305]. Come sintetizzato anche da Pizza, negare la dimensione intenzionale del silenzio e pensare di poter penetrare l’intimità significa sopraffazione, trasformare la cura in dominanza [cfr. Pizza, 2007].
Nel successivo saggio Corpo istituzione, del 1968, Basaglia riflette sulla dimensione corporea del rapporto medico-paziente sottolineando come, nonostante siano due i soggetti che entrano in relazione, tale incontro di attui esclusivamente nel corpo del malato, esso infatti in realtà è considerato l’unico presente: «un incontro fra un soggetto e un corpo cui non viene data altra alternativa oltre quella di essere oggetto agli occhi di chi lo esamina» [Basaglia, 1981:429]. Il malato per possedere un corpo in ospedale deve incorporare l’istituzione stessa, come afferma Eugene Bleuler deve “abituarsi” [cfr. Pizza, 2007]. L’opera di Basaglia evoca una dimensione in cui «la conoscenza è corporea, incastrata nella pratica e non cristallizzabile in un patrimonio concettuale, né in una tradizione scientifica, politica o legislativa, e ancor meno in indicazioni tecnico-prescrittive. Si tratta di una memoria dialettica, viva e contraddittoria […] che sfugge alla sistematizzazione» [Ivi, p.65].
«Il problema della follia non riguarda solo il modo di rappresentare e quindi di trattare i malati mentali ma è anche l’indice di come la cultura pensa alla malattia mentale e al suo modo di essere nel mondo. Al contempo le manifestazioni della follia divengono un’occasione per la coscienza sociale di tracciare limiti e confini della propria identità, al prezzo dell’individuazione dell’alterità» [Rossi, 2002:131]. L’annientamento, conseguenza della segregazione in quell’istituzione totale che è il manicomio, si accompagna ad un processo che conduce il soggetto ad essere privato della sua libertà a seguito di una duplice “condanna”: quella naturale imposta dalla sua follia e quella giuridica, necessitata dalla sua interdizione, che lo fa cadere sotto la potestà altrui.
Come ricordava Basaglia, la psichiatria classica si è limitata alla sola definizione delle sindromi in cui il malato, strappato alla sua realtà ed estraniato dal contesto sociale in cui vive, viene etichettato, costringendolo ad aderire ad una malattia astratta, simbolica e in quanto tale ideologica. Ciò ha pertanto condotto ad una «oggettivazione dell’uomo in sindrome» [Basaglia, 1981:309]. L’abolizione dei manicomi è stata accompagnata dalla cancellazione nella legislazione psichiatrica della presunzione di pericolosità della persona portatrice di disturbi mentali, il che ha prodotto una trasformazione dell’apparato istituzionale psichiatrico mediante la progettazione di luoghi e pratiche capaci di gestire una sofferenza mentale storicizzata, in quanto parte dell’esistenza e contestualizzata, in quanto parte di un corpo sociale [cfr Rossi, 2002]. «La legge n. 180/1978 ha dunque espresso il suo significato più profondo nella restituzione di storicità, temporalità e socialità alle persone, mettendo in scacco le istituzioni totali e i modelli nosografici ormai pietrificati. Ha restituito centralità […] al soggetto, all’esigenza di una sua efficace tutela che accompagni la persona vulnerabile senza espropriarla e ha infine fornito le basi per una consapevole cultura della soggettività in ambito sanitario». [Ivi p.133].
Malgrado ciò, è ancora evidente che il grande “lascito basagliano” rappresenti un’idea rivoluzionaria da un lato ma anche non del tutto assorbita nei suoi principi dall’altra. Lo dimostra l’acceso dibattito che ancora oggi si innesca sul tema. È per questo che, ancora oggi, è più che giusto discutere di questa rivoluzionaria concezione che da un lato ha permesso di chiudere quei contenitori di esistenze, considerate, forse troppo frettolosamente, come “corpi guasti” ma dall’altro non è stata recepita per far sì che quei “disagi” si ritrovassero “nudi” ed impreparati al confronto con una società altrettanto impreparata a queste “diversità”. Hanno un altro suono, alla luce di quanto detto, le parole di Alda Merini, a proposito di Basaglia:
«Come eravamo innamorati, noi,
laggiù nei manicomi
quando speravamo un giorno
di tornare a fiorire
ma la cosa più inaudita, credi,
è stato quando abbiamo scoperto
che non eravamo mai stati malati»
1Concetto in relazione e contrapposizione all’immagine corporea. Essa in soggetti dal vissuto psicologico fortemente tormentato arriva ad essere totalmente deformata, lo schema corporeo è invece caratterizzato da uno scarso grado di consapevolezza, non è un qualcosa che l’individuo mentalizza e vari a seconda delle abitudini corporee del soggetto date dalla sua interrelazione mente-corpo.
Bibliografia
Basaglia, F., (a cura di), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Einaudi, 1973
Basaglia, F., Scritti I. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Einaudi, Torino, 1981
Basaglia, F., L’utopia della realtà, Einaudi, 2005
Cioffi, F., “Modelli di sofferenza mentale in Freud e Jung”, in Riv. di psichiatria, 37, 4, 2002
Focault, M., Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano, 2003
Freud, S., Compendio di psicoanalisi, Torino, 1979
Kleinman, A. The illness narratives: suffering, healing, and the human condition, Basic Book, New York, 1988
Pizza, G., “La questione corporea nell’opera di Franco Basaglia. Note Antropologiche”, in RSF,vol. 81, n. 1,2007
Rossi, S., “La legge n. 180/1978 quale fattore di revisione dei paradigmi. Dall’immunitas alla communitas”, in BioLaw Journal. Rivista di BioDiritto, n.3, 2018